Lucie tra i cadaveri nella foresta di Spirei

A Bergamo la versione francesce dell’opera di Donizetti diventa una forte denuncia della violenza sulle donne Caterina Sala protagonsta (indisposta e poi sostituita)

Lucie è dura, molto più dura rispetto a Lucia. Dura nel testo, tagliente, netto, meno poetico e più prosaico, capace di buttarti in faccia la ruvidezza e l’impietoso cinismo di una società dove il potere (che è maschio) governa qualsiasi tipo di rapporto – e in Lucie, a differenza di Lucia non ci sono donne oltre alla protagonista, Alisa, la confidente, sparisce nella versione francese per far spazio a un subdolo e duplice Gilbert. Dura, più dura Lucie rispetto a Lucia, nello sviluppo drammaturgico che racconta, quasi con il distacco di un reportage di cronaca (o almeno, quello che dovrebbe essere il distacco di un reportage di cronaca, viste le contaminazioni/derive moralistiche/scandalistiche di cui oggi certo giornalismo da vita in diretta si impregna), racconta la vicenda della ragazza che il fratello getta tra le braccia di un uomo che non ama per salvare il suo clan (siamo in Scozia, alla fine del diciassettesimo secolo, dice il libretto ispirato a Walter Scott) dalla rovina politica (e presumibilmente anche economica). Violenza sulle donne, certo… violenza piscologica di un fratello (e di un clan) che impone un matrimonio di interesse (in Lucia, poi, si allunga anche l’ombra dell’incesto…). Ma non dimentichiamoci che Lucia, meglio Lucie (ma tra versione italiana e versione francese lo snodo cruciale non cambia), uccide, senza pietà, in preda alla follia, il marito (marito per una manciata di ore) Arturo. E poi muore (di crepacuore, presumibilmente).

Il gancio con Gaetano Donizetti, con la sua Lucie de Lammermoor (versione francese, che è simile, ma non sovrapponibile per intero alla Lucia di Lammermoor italiana), è subito fatto, facile, sull’onda emotiva (fatta diventare tsunami da certo giornalismo che indaga, impietoso, nella vita delle persone con un occhio che quello del grande fratello al confronto sembra discreto…) delle notizie di cronaca… E Francesco Micheli non se lo lascia sfuggire, prende il microfono, si mette al centro della platea del Teatro Sociale (lo farà due volte nel corso della serata quando bastava, come si fa sempre, in tutti i teatri del mondo per comunicare l’indisposizione prima e la sostituzione poi di un interprete, un annuncio fuori scena), si mette al centro della platea del Teatro Sociale (siamo in città alta) per dire (dopo aver annunciato che Caterina Sala, pur indisposta, avrebbe cantato comunque) che «il ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchettin porta a 105 il numero delle donne uccise dai loro compagni dall’inizio dell’anno». Tante «Lucie», le definisce non senza una retorica che, però, fa subito presa sul pubblico il direttore artistico del Donizetti opera di Bergamo, «Lucie» alle quali viene dedicato un pensiero. E, immancabile, sull’onda emotiva (qualcuno non aveva avuto nemmeno il tempo di controllare sul cellulare l’ultima ora e si è trovato buttata in faccia la realtà) scatta l’applauso.

Eppure sarebbe bastata – l’arte parla da sola, ha una forza dirompente, più di qualsiasi parola che provi a spiegarla – sarebbe bastata solo fa forza di Lucie, dura, più dura della Lucia originale, nel testo, nello sviluppo drammaturgico, nella teatralità del racconto. Durezza, ruvidità che Jacopo Spirei coglie benissimo, facendone la cifra della sua Lucie de Lammermoor (nuovo allestimento in coproduzione con il Comunale di Bologna dove, però, la partitura sarà proposta nella versione italiana). Dura, allucinata, incarnata nella realtà, ma allo stesso momento astratta nella sua collocazione fuori dal tempo (costumi e acconciature e occhialoni sono anni Ottanta, ma anche anni Cinquanta, ma anche primi anni Duemila, li disegna Agnese Rabatti) la Lucie di Spirei, tutta in una foresta di alberi a due dimensioni (ce ne è solo uno materico, sempre presente, sulla destra del palco, omaggio, forse al maestro di Spirei, Graham Vick, che fece proprio una Lucia con un albero sempre in scena). Alberi bidimensionali (la scena, pressoché unica, è di Mauro Tinti, illuminata da Giuseppe Di Iorio), stampati, quasi quadricromie (ma anche bianchi e neri) da bozza di tipografia, dai contorni tremuli, che sfocano la vista per raccontare un mondo difficile da mettere a fuoco. Un mondo che non riesci ad inquadrare, con il quale non riesci ad essere in sintonia. Tribale. Violento. Nei confronti delle donne, certo. “Preda” dei cacciatori che con il loro coro aprono Lucie – in una foresta, appunto, dove tutta la vicenda resta. Cadaveri nudi accumulati su foglie secche, carne da macello fatta a brandelli, rifiuti non riciclabili, “silenziati” dopo l’uso, anzi dopo l’ab-uso. Tracce da cancellare, resti sui quali gettare benzina (come sulla carcassa dell’auto accanto alla quale muore Edgard) per ridurli in cenere. Immagine già “sentita” troppe volte nei notiziari questa con la quale Spirei chiude la sua Lucie dandoti uno schiaffo – basta l’arte, non servono parole, appunto.

Lucie, non Lucia, proposta interessante e doverosa da parte di un festival come il Donizetti opera di Bergamo, festival che mette al centro l’indagine scientifica (scientifica, naturalmente, si legge musicologica) sul musicista di casa, ma che è ancora in cerca d’autore dal punto di vista dell’identità, quella cosa che Oltralpe chiamano posizione di profilo (la linea la indicano sovrintendenza/direzione artistica e drammaturgia) per dire il tracciato entro il quale l’istituzione vuole camminare per proporre una riflessione artistica sul presente al proprio pubblico – a Bergamo l’ambizione ad essere punto di riferimento internazionale per Gaetano Donizetti c’è, la strada musicologica imboccata è quella giusta, l’esito artistico resta alterno… possibile che lo spettacolo di punta del programma musicale per Bergamo Brescia Capitale della cultura 2023 della fondazione Donizetti sia stato Raffa in the sky (a proposito… quanto l’opera su Raffaella Carrà avrà sottratto risorse al budget del festival? a vedere gli allestimento low coast dell’edizione 2023 si direbbe molto… ma parleranno i bilanci) possibile che lo spettacolo di punta del programma musicale per Bergamo Brescia Capitale della cultura 2023 della fondazione Donizetti sia stato Raffa in the sky e non una grande coproduzione internazionale (o anche un’opera contemporanea affidata a un grande del nostro tempo… Benjamin, ad esempio…) nell’ambito del Donizetti opera?

Domande da rivolgere (anche) alla politica. Che c’è nella Lucie riletta da Spirei – figura meschina quella che viene sbalzata del fratello di lei, Henri Ashton, al pari di quella cinica e senza scrupoli (qui ancora più che in Lucia dove sembra una vittima suo malgrado) di Arthur. E non è quella nobile, dei padri costituenti (di qualsiasi nazione, intendiamoci), ma quella di un potere corrotto, che lavora nel sottobosco. Dove si svolge tutta la vicenda, dove Spirei imprigiona Lucie. Un sottobosco, una foresta dove non c’è scampo per nessuno, perché quel labirinto di alberi intrappola, opprime come sbarre di una prigione dalla quale non si vede il cielo. Lucie, versione francese scritta da Gaetano Donizetti per Parigi nel 1839, remake dell’originale italiano del 1835 andato in scena a Napoli. Proposta dal Donizetti opera, come ormai d’abitudine per uno dei titoli del cartellone, con l’orchestra Gli Originali, strumenti d’epoca (e l’accordatura è lunga, ripetuta, gli archi con corde di budello scoperte, i fiati moltiplicati a seconda dell’accordatura necessaria…) e diapason a 432 Hz (ma cantare non è più facile…) per ritrovare il suono dell’epoca, di quando Donizetti scrisse le sue partiture. Suono meno brillante, più ombroso e sinistro.

A governarlo (tra ripetute mancanze di intonazione, specie nei fiati, gli ottoni in particolare, attacchi sporchi, imprecisioni) è stato chiamato Pierre Domoussaud, anche se l’abbinata direttore francese per la musica francese non è sempre azzeccata e non dovrebbe nemmeno andare in automatico, perché certo Lucie è in francese per Parigi, ma è pur sempre impregnata di italianità, di melodramma (tanto è vero che Donizetti nel riscriverla non ne fa una versione grand opéra, come, ad esempio, fece Gioachino Rossini rimaneggiando il suo Mosé e trasformandolo – ballabili compresi – nel Moïse), di una teatralità che non lascia spazio a profuni (chiamiamoli languori e mollezze) d’Oltralpe. O meglio, li prende e li trasforma in altro. In racconto (in parte diverso da quello di Lucia) per delineare altri caratteri e altri personaggi – lei, ad esempio, è più ragazzina, più sognatrice (lo dice la prima aria che non è il celebre Regnava nel silenzio, ma Quenn’avons-nousdes ailes? perché non abbiamo ali, autoimprestito, come ben spiega il programma di sala dettagliatissimo, dalla Rosmonda d’Inghilterra) e Spirei che la racconta così, prima libera in scamiciato e cappotto, poi imprigionata in un abito da sposa con un velo quasi claustrale… bellissima e inquietante allo stesso tempo l’immagine di lei alla festa di matrimonio, chiusa nel suo velo, gli occhi spiritati, in mano il coltello per tagliare la torta, ma già con la mente altrove, al delitto. Domoussaud passa sopra tutto questo, sembra non credere fino in fondo nella potenza evocativa della partitura. Fa una Lucie né italiana né francese, una Lucie tutta d’un pezzo, monolitica nel suono, priva di sfumature, ma anche di affondi teatrali. Tira dritto, lascia che il palcoscenico (dove il coro è quello dell’Accademia del Teatro alla Scala) vada da solo.

Caterina Sala, giovanissima, indisposta, ma tenace nel voler provare ad andare in scena, ha temperamento. Ha coraggio. E intelligenza. Intelligenza musicale per affrontare la parte e per venirne a capo con assoluta (e apparente, ma sicuramente non è stato così, è stato un Everest) facilità: nella prima aria senti che qualcosa non va, che la voce non corre, che l’acuto arriva a fatica, ma poi c’è il duetto con il fratello e la voce si scalda, si fa piena, fluida… (a fine recita, quando la saluti, appena apre bocca ti domandi come abbia fatto, così raffreddata, a cantare – e comunque bene – un’ora prima). Arrivano gli acuti del J’ai pour moi (il concertato che in italiano è il celeberrimo Chi mi frena in tal momento) e del finale della prima parte. E pensi che continuerà, anche se all’orizzonte c’è la Pazzia (qui senza glassarmonica). Ma arriva l’annuncio (la seconda comparsata di Micheli in platea) che a sostituire Caterina Sala, che sarà in scena a “recitare” Lucie, ci sarà, a lato del palco, davanti al leggio, Vittoriana De Amicis. Intelligenza, coraggio, umiltà di Caterina Sala che ha detto no. E una difficoltà, quasi, si trasforma in risorsa. Perché la scena della Pazzia, fatta così, con una Lucie insanguinata e muta in scena, quasi un fantasma che appare agli invitati alle nozze, e la voce che arriva da un altrove indefinito (Vittoriana De Amicis, che ci mette anche impegno e intenzione, avrebbe potuto risparmiarsi il tentativo, non riuscito, di salire al fa e nessuno le avrebbe detto nulla…), la scena della Pazzia fatta così, sdoppiata, assume si colora ancora di più di allucinata inquietudine. Fantasma, Lucie, di tutte le vittime di violenza – che è quella psicologica, perché Lucie uccide, lo dice il sangue di cui è coperta.

Vittima, Lucie, del fratello Henri, cui presta voce piena e timbratissima e figura sinistra e sghemba Vito Priante. Vittima di Arthur che ha la bella voce di tenore (e la statura vertiginosa) di Julien Henric, la voce di tenore che corre di più, che cattura e convince. Vittima di Gilbert, subdolo e doppio, finto amico, ma poi spia di Henri, che è un altro tenore, David Astorga. Vittima (qui, nella versione francese, un po’ meno, perché manca il tremendo Al ben de’ tuoi qual vittima, offri Lucia te stessa…) anche di Raimond, un puntuale Roberto Lorenzi. Vittima, forse anche di Edgard (qui maggiormente invischiato in trame politiche), ruolo da tenore lirico che il Donizetti opera affida a un leggero (diciamo tenore di grazia), a Patrick Kabongo, Ernesto (del Don Pasquale) o Nemorino, Don Ottavio (del Don Giovanni) o Fenton (di Falstaff)… che però, nel contesto raccolto e dalle distanze pressoché azzerate tra palco e platea del Teatro Sociale, funziona anche come Edgard, arriva corretto, puntuale, (anche distaccato, ma forse questa è più un’indicazione d regia che lo vuole in jeans, maglietta bianca e giubbotto di pelle)… appuntamento, per la prova del nove, in una sala dalle dimensioni più ampie.

Muore, Edgard, nella foresta. Accanto alla carcassa di un’auto. A due passi cadaveri nudi di donne, accumulati su foglie secche, carne da macello fatta a brandelli, rifiuti non riciclabili, “silenziati” dopo l’uso, anzi dopo l’ab-uso. Tracce da cancellare, resti sui quali gettare benzina (come sulla carcassa dell’auto accanto alla quale muore Edgard) per ridurli in cenere. Immagine già “sentita” troppe volte nei notiziari questa con la quale Spirei chiude la sua Lucie dandoti uno schiaffo. Basta l’arte, basta la durezza, la ruvidezza della Lucie di Donizetti. Non servono (altre) parole.

Nelle foto @Gianfranco Rota Lucie de Lammermoor al Donizetti opera di Bergamo