L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’attesa del volo

 di Antonino Trotta

Tesa e vibrante come le corde di un kokyū, la concertazione di Daniel Oren è il vero punto di forza della Madama Butterfly in scena al Teatro Regio di Torino. Molto positiva, seppur nell’ordinarietà delle voci, la prova della seconda compagnia di canto.

leggi anche la recensione della prima con Rebeka Lokar, Murat Karahan e Simone Del Savio Torino, Madama Butterfly, 10/01/2019

TORINO, 11 Gennaio 2019 – L'attesa del piacere è essa stessa il piacere? Butterfly, col senno di poi, non sarebbe d’accordo. Nel capolavoro di Puccini, in effetti, l’aspettativa del futuro condiziona inevitabilmente lo scorrere del presente, vissuto come la cieca traversata di ponte, lungo e indefinito, di cui non si riesce mai a scorgere l’altra estremità. E se l’anestetizzante condizione avvolge in maniera più evidente il nocciolo drammaturgico del secondo atto, dove la speranza sola interviene per allentare la morsa di questa asfissiante dimensione, non bisogna perdere di vista lo spirito impaziente che abita anche l’inizio: il corteo che accompagna la geisha lungo il sentiero della collina e il coro di sortita manifestano proprio la tangibile frenesia per l’agognata rivalsa che spinge Butterfly tra le braccia bramose del Don Giovanni in disuso; così l’equivoco duetto d’amore nel finale del primo atto vibra dell’incontenibile pulsione erotica accesa nella pelvi del tenente della Marina – alla maniera di «Possente amor mi chiama», per citare un altro bipede fraudolento – dall’idea di poter toccare, con mano ardente e ardita, il giocattolo d’amore a buon mercato. Non è dunque nell’esotismo pittorico o nel sentimentalismo strappalacrime che prende vita il capolavoro pucciniano, è piuttosto nell’osservazione cruda e tagliente dell’estenuante attesa che si consuma il dramma a cui il genio lucchese ha saputo dare una forma di assoluta compiutezza, ritraendo, a volte con sadismo, il claustrofobico bozzolo, prigione per una crisalide che mai si trasformerà in farfalla.

Risulta allora comprensibile, in quest’opera, la responsabilità e la determinanza della concertazione, affidata con esiti estremamente positivi alla sapiente bacchetta di Daniel Oren che ben ha saputo governare i complessi dell’Orchestra del Teatro Regio, in gran spolvero, garantendo un’ottima relazione tra palcoscenico e golfo mistico. Il nitore rivelatore nella realizzazione del dettato pucciniano, quasi cameristico nello scioglimento degli origami strumentali, il fine cesello nella modellazione dinamica e la flessuosità dell’impasto sonoro valorizzano la fattura di questo capitolo che parte dalla Bohème e immagina già i modernismi di Turandot. Sono tuttavia la drammaticità dell’accento distaccato e crudele, l’attesa del secondo atto per esasperare l’impetuosità della partitura, la lama affilata degli archi, cinici e impietosi nei tremoli, l’attenzione alle eloquenti dissonanze e soprattutto l’indugio nell’abbandono lirico a tendere le corde della lettura del maestro israeliano, struttura portante dell’intera produzione.

Produzione che, nella dialogica visiva, si avvale dell’ormai leggendaria eleganza di Pier Luigi Pizzi per fornire, però, niente di più che una bella cornice in cui rimirare l’opera. Concepito dieci anni fa per l’antico stadio della pallacorda, l’allestimento dello Sferisterio di Macerata, didascalico nella rappresentazione oleografica di un Giappone quasi da cartolina, sta forse un po’ stretto nell’economia degli spazi di un teatro chiuso: casetta, albero e praticabili limitano non poco lo spazio d’azione (la scena si satura quando, nel coro a bocca chiusa, gli spiriti invadono l’intera collina), invero concentrato esclusivamente sulla pedana centrale. I costumi a kimono – rigorosamente candidi nei colori, secondo lo stile del tardo Pizzi – e i movimenti scenici rispondono ai dettami della tradizione, attingendo spesso ai numerosi spunti che la cultura giapponese generosamente offre. È proprio sul crinale tra ritualità e misticismo, tra sogno e realtà che Pizzi si concede qualche impennata: le visioni di Butterfly si materializzano, durante l’interludio sinfonico, attraverso la parentesi ballettistica di Letizia Giuliani e Francesco Marzola, regalando alla farfalla finalmente la possibilità di liberarsi dagli spilli che l’hanno intrappolata sulla parete di un collezionista di frode per spiccare, seppur nella vanità delle illusioni, il volo. Toccante il finale, dove l’harakiri cede il passo al rituale del seppuku: è infatti la dolce Suzuki, in un afflato di pietà e premurosa solidarietà, a infliggere a Butterfly il colpo di grazia.

Venendo al versante vocale, la compagnia di canto non brilla per l’eccezionalità delle voci ma, nel complesso, la recita è più che soddisfacente.

Karah Son, già Butterfly nell’edizione in forma semiscenica (insieme a Piero Pretti e Roberto de Candia, all’Orchestra del Teatro Regio e con la splendida direzione di Francesco Lanzilotta) che nel luglio 2016 fregiava il cartellone del Torino Classical Music Festival (la rassegna estiva in Piazza San Carlo, poi trasformata dalla giunta Appendino nella versione ridotta – e a pagamento – di Torino Estate Reale), porta in scena un personaggio ben costruito, convincente nell’incisivo fraseggio, armonioso e approfondito nei colori, ricercati e uniformi in tutta la tessitura, conferiti alla linea vocale ben tornita con sfumature e messe di voce. Certo, alcune asperità nel registro acuto compromettono la morbidezza di taluni passaggi – soprattutto nella sortita – ma la padronanza del ruolo e la buona maturità interpretativa le valgono le ovazioni finali.

Anche Massimiliano Pisapia si disimpegna bene nei panni di Pinkerton, sebbene l’emissione appaia a volte disomogenea (indietro nel registro centrale) e stentorea. Dopo un confronto con Goro piuttosto in sordina, la piacevolezza del timbro e la baldanza dello squillo si affermano nel duettino con Sharpless e acquistano vigore nel corso del primo atto, dando sostanza al carattere sfacciato e seduttivo dell’impostore americano, specie nel breve frammento del brindisi.

Partecipato e coinvolgente, drammaticamente complesso e combattuto, lo Sharpless di Fabio Maria Capitanucci s’impone per l’incisività del fraseggio, l’omogeneità e la pienezza vocale a servizio di una musicalità ben pronunciata nelle inflessioni degli accenti, magnetici nella scena del secondo atto. Valida l’accorata Suzuki di Sofia Koberidze, di cui si loda il bel timbro corposo.

Completano correttamente il cast Luca Casalin (Goro), Paolo Maria Orecchia (il principe Yamadori), In-Sung Sim (lo zio bonzo), Franco Rizzi (il commissario imperiale), Ivana Cravero (Kate Pinkerton), Marco Tognozzi (lo zio Yakusidé), Riccardo Mattiotto (l’ufficiale del registro), Claudia De Pian (la madre di Butterfly), Rita La Vecchia (la zia) e Ashley Milanese (la cugina) e Francesco Sansalone (il figlio di Butterfly). Sempre eccellente la prova del Coro del Teatro Regio di Torino, istruito dal maestro Andrea Secchi.

Teatro gremito e applausi scroscianti per tutti, con particolari e meritatissimi apprezzamenti per Daniel Oren e Karah Son.


 

 

 
 
 

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