Genova, Teatro Carlo Felice: “Tosca”

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2018-2019
TOSCA
Dramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal dramma omonimo di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca MARIA JOSÉ SIRI
Mario Cavaradossi DIEGO TORRE
Il barone Scarpia ALBERTO GAZALE
Cesare Angelotti JOHN PAUL HUCKLE
Il sagrestano MATTEO PEIRONE
Spoletta DIDIER PIERI
Sciarrone RICARDO CRAMPTON
Un carceriere ALESSIO BIANCHINI
Un pastorello MANUEL MELEDINA
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice
Direttore 
 Valerio Galli
Maestro del Coro Francesco Aliberti
Maestro del Coro Voci Bianche Gino Tanasini
Regia Andrea Cigni
Scene Dario Gessati
Costumi Lorenzo Cutuli
Luci Fiammetta Baldiserri
Allestimento in coproduzione dei Teatri di OperaLombardia e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Genova, 05 maggio 2019
La “Tosca” correntemente in scena a Genova è stata già vista nel circuito lombardo che la produce (qui la recensione della replica comasca), ma, in parte per il cast particolarmente ispirato, in parte grazie al palco più grande ed equipaggiato diversamente, l’effetto che ne emerge non è esattamente lo stesso: se alcune perplessità di regia e scenografia rimangono (principalmente: l’ambientazione fin-de-siècle, l’eccessivo carico teatrale dei personaggi del sagrestano e di Scarpia, l’uso ingiustificato di coperture riflettenti sulla maggior parte della scena del terzo atto), il contesto più ampio ha sicuramente giovato alla fruizione della scena di Dario Gessati e dei costumi di Lorenzo Cutuli, e ha saputo esaltare anche il progetto di luci di Fiammetta Baldiserri. Soprattutto il secondo atto emerge visivamente, con la parete obliqua inclinata in profondità, l’atmosfera cupa su cui grava una senso di allucinata follia, fino al rosso imperante del finale, dai taglienti chiraoscuri. Per quanto riguarda la compagine canora, ci troviamo di fronte a una prova convincente: spicca senz’altro il Cavaradossi di Diego Torre, forse un filo stentoreo, ma senz’altro capace di movimentare la linea di canto rimanendovi fedele. Il fraseggio è marcatamente “verista”, i cromatismi ben misurati, il colore vocale ha venature metalliche che conferiscono carattere alla rotondità del suono. Su “E lucevan le stelle” il pubblico non solo va, come al solito, in delirio, ma chiede a gran voce un bis: immediatamente ottenuto, questo viene cantato (forse per maggiore tranquillità di Torre) con eleganza e pieno controllo dinamico, anche meglio della precedente. Non c’è dubbio che il tenore australiano (messicano di nascita) si possa accreditare come tra i migliori tenori lirico drammatici della sua generazione. Buona anche l’interpretazione della protagonista, ad opera dell’infaticabile Maria José Siri: il suono morbido della sua voce, sa adattarsi bene ai guizzi drammatici e al fraseggio spesso incalzante di Tosca; se rimane qualche opacità nei centri, il registro acuto si staglia pieno e sicuro; le doti sceniche della Siri, poi, soprattutto nel secondo e nel terzo atto, contribuiscono a creare un personaggio, non personalissimo, ma comunque sanguigno e coinvolgente. Anche lo Scarpia di Alberto Gazale dà buona prova di sé: il suono ben proiettato e sostenuto, la tecnica precisa, il fraseggio adeguato, consentono al baritono di interpretare con spavalderia il ruolo del terribile barone; questa sicumera, però, sul piano scenico, lo porta a momenti caratterizzati da qualche gigioneria di troppo: siamo lontani da uno Scarpia tormentato e dark, ma anche da uno allucinato e sanguinario. A parte queste licenze, comunque, Gazale fa un ottimo lavoro e il pubblico gli tributa applausi convinti. Gli altri ruoli  sono interpretati adeguatamente dalla maggior parte dei cantanti: il sagrestano di Matteo Peirone si presta ai giochi (forse troppo macchiettistici) della regia, mantenendo una linea di canto nitida, una intelleggibilità della parola anche nei momenti di maggiore concitazione o nei passaggi più bassi; lo Spoletta di Didier Pieri si distingue per chiarezza emissiva e buona espressività; Sciarrone (Ricardo Crampton) e il carceriere (Alessio Bianchini) sono anch’essi portati in scena e cantati correttamente; forse solo l’Angelotti di John Paul Huckle si dimostra non del tutto a fuoco, penalizzato anche da una dizione perfettibile e da suoni talvolta intubati; emozionata e tenera, infine, lo “stornello” romanesca del piccolo Manuel Meledina nel ruolo del pastorello. La direzione del Maestro Valerio Galli si riconferma cauta, molto attenta ai colori della partitura, e riesce a tenere sapientemente le redini di orchestra e scena; le performance del Coro e del Coro di Voci Bianche senza dubbio si apprezzano, anche se ci si aspettava forse una maggiore convinzione sul “Te deum”. Il pubblico che riempie la grande sala alla fine tributa ovazioni più o meno a tutti, e il Carlo Felice si avvia ai titoli finali di stagione (tutti all’insegna del Verismo) riscuotendo un altro bel successo. Foto Marcello Orselli