Torino, Teatro Regio: “Les pêcheurs des perles”

Torino, Teatro Regio, stagione d’opera e di balletto 2019/2020
“LES PÊCHEURS DES PERLES”
Opéra liryque in tre atti su libretto di Eugène Cormon e Michel Carré
Musica di Georges Bizet
Leïla HASMIK TOROSYAN
Nadir KÉVIN AMIEL
Zurga PIERRE DOYEN
Nourabad UGO GUAGLIARDO
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Ryan McAdams
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia, scene, costumi, coreografia e luci Julien Lubek e Cècile Roussat
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 6 ottobre 2019
La nuova stagione del Teatro Regio apre all’insegna dell’opera francese, che ricorrerà nel corso della programmazione e che si accoglie con piacere, essendo quello transalpino uno dei repertori più ricchi e meno sfruttati dell’intera scena operistica internazionale. La scelta è caduta su “Les pêcheurs des perles”, opera quasi mai eseguita a Torino e allestita, per la prima volta,  sul palcoscenico del Regio. Quest’opera, il cui ultimo allestimento in forma scenica nel capoluogo piemontese risaliva a una produzione del Teatro Nuovo nel 1959 e che successivamente aveva visto solo un’esecuzione concertistica nel 2015, costituisce, inoltre il primo atto di un mini-festival-bizetiano che proseguirà a dicembre con “Carmen”. L’occasione del debutto purtroppo non è stata celebrata nel modo migliore con uno spettacolo che, pur godibile nell’insieme, risultava sostanzialmente riuscito solo a metà.Sugli scudi i complessi torinesi autori di una prestazione maiuscola. Ryan McAdams, già direttore dell’opera nella citata edizione concertistica, conferma il suo particolare feeling con l’opera francese traendone una lettura sfavillante nei colori e nei giochi di ombre e di luci che esaltano il raffinato orientalismo della partitura e creano un gioco cangiante di tinte e di atmosfere sempre perfettamente puntuali con la narrazione e intrecciandosi in un meraviglioso arazzo sonoro. Se McAdams conosce e ama profondamente questa partitura, il merito della realizzazione va all’orchestra del Regio che poche altre volte si è sentita suonare con tanta convinzione e tanta bellezza sonora. Se più che una lode merita la prova dell’orchestra, ancor più alti sono gli elogi per il cor che, diretto da Andrea Secchi, è stato il vero mattatore dello spettacolo. Fin dal “Sur la grève en feu” che apre l’opera le qualità del coro sono emerse e si sono mantenute nel corso di tutta la rappresentazione passando dalle trasparenze di “Sois la bienvenue” alla bruciante drammaticità di “Voici les deux coupables!” e del pre-finale senza un minimo momento di appannamento.Sul versante vocale vince senza ombra di dubbio la Leïla di Hasmik Torosyan. La cantante armena – già apprezzata lo scorso anno come Amina – conferma il suo talento. Voce non grande ma ottimamente emessa, bella uniformità nei registri, emissione flautata e carezzevole, timbro luminosamente femminile. La Torosyan volteggia con grazia sicura fra le volute degli orientalismi di Bizet, sfoggia filature da manuale, affronta con naturalezza le salite in acuto. La bella figura dai tratti esotici si adatta benissimo al personaggio che – anche per scelte di costumi – viene a ricordare una principessa da “Mille e una notte”.
La stessa Torosyan avrebbe potuto però avere una migliore resa sul versante espressivo se circondata da migliori compagni di avventura. Pierre Doyen, subentrato in corsa per salvare le prime recite dopo l’indisposizione di Fabio Maria Capitanucci, ha dalla sua tutte le attenuanti del caso tanto più perché questo è stato il suo debutto scenico nel ruolo. La voce è sonora, ha una buona robustezza ed è sorretta da una buona efficacia tecnica; si notano, però, alcuni slittamenti d’intonazione e qualche durezza in acuto. E’ però soprattutto sul versante interpretativo che Doyen latita con una lettura troppo generica e monocorde e un fraseggio povero di dinamiche che impoveriscono il personaggio teatralmente più sfaccettato dell’opera.Problemi non solo interpretativi ma prima di tutto vocali per il Nadir di Kévin Amiel. Bizet affida al giovane pescatore alcune delle melodie più belle dell’intera storia dell’opera ma richiede un canto all’altezza di queste. Amiel, contando purtroppo su una voce piccola e timbricamente anonima ed esibendo un canto spesso duro e faticoso, non riesce minimamente a rendere la poesia di momenti come “Je crois entendre encore” o i duetti con Zurga e Leila. Gli vanno riconosciuti impegno e coraggio – gli acuti sono presi con grande baldanza anche se l’esito non è sempre ottimale – ma il risultato non è nel complesso soddisfacente considerando anche la trascuratezza di un fraseggio carente di sfumature e colori.
Ugo Guagliardo ha buona presenza vocale e giusta autorità per il gran sacerdote Nourabad di cui riesce a rendere in modo convincente la fermezza di propositi che sconfina nel fanatismo.
 Julien Lubek e Cècile Roussat, che si erano fatti apprezzare a Torino per un delizioso allestimento di “Dido and Aeneas” di Purcell, questa volta non vanno oltre un risultato  più interlocutorio.  I due artefici della parte visiva – firmano congiuntamente tutte le componenti – mantengono il loro abituale taglio fiabesco. La parte visiva è molto semplice ma non manca di piacevolezza. Un arco orientale inquadra la scena come la cornice di un libro illustrato. Vediamo una spiaggia, uno specchio che crea l’illusione dell’acqua, pochi elementi scenici. I costumi rimandano a un Oriente magico e favolistico dove l’India sconfina con il mondo arabo-persiano dei racconti di Shahrazād o meglio con l’immagine che l’Europa ottocentesca aveva di esso. I pochi elementi scenici sono marcati nella loro dimensione posticcia, essendo costituiti da quinte architettoniche, fronde o fiamme rigorosamente monodimensionali, come sagome di carta ritagliata su un libro per bambini o immagini dipinte sui vetrini che venivano proiettati con le lanterne magiche. Di certo uno spettacolo fin troppo semplice e ingenuo per certi aspetti, da guardare con l’ingenuo stupore di un bambino, con gli occhi del piccolo Marcel che nelle prime pagine di “Du còte de chez Swann” guarda le immagini che il suo strumento incantato proietta sulle pareti della cameretta di Combray.
Se la parte scenica, nonostante certe ingenuità, ha comunque una sua piacevolezza, il vero problema è costituito dall’assenza di una regia degna di tal nome. Il lavoro sugli attori praticamente è nullo con i cantanti lasciati a loro stessi, totale l’incapacità di muovere le masse con il coro perennemente bloccato in stasi oratoriale;  di contro si assiste a una profusione di controscene, all’ormai immancabile presenza dei doppi dei personaggi – qui impegnati in pantomime che mimano i racconti sul passato dei protagonisti – e al continuo ricorso a numero coreografati per riempire il vuoto di idee con il solo risultato di sovraccaricare la narrazione.
Il debutto de “Les pêcheurs des perles” si rivela quindi bifronte e, pur non mancando gli elementi positivi, si sarebbe potuto far di più per questa importante occasione.