L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Verdi e la legge del più forte

di Francesco Lora

All’Arena di Verona, le recite di Aida in forma scenica iniziano con la direzione poco autorevole di Diego Matheuz e i cantanti che comandano incontrastati (a costo di una minore tenuta d’assieme); grandi nomi: Angela Meade, Anita Rachvelishvili, Jorge de León, Luca Salsi e Michele Pertusi.

VERONA, 26 giugno 2021 – Dopo l’Aida diretta da Riccardo Muti il 19 e 22 giugno [leggi le recensioni:Verona, Aida, 19/06/2021 e Verona, Aida, 22/06/2021], eccone un’altra il 26, sempre all’Arena di Verona, che pare l’opposto della precedente. Intanto è in forma scenica anziché concertistica. Si è però rinunciato, in tempo di pandemia, a riprendere l’allestimento del 2002 – costoso, affollato, ingombrante – con regìa e scene di Franco Zeffirelli, costumi di Anna Anni e coreografia di Vladimir Vasiliev. È stato invece predisposto un nuovo, agile allestimento con scene perlopiù consistenti in fondali videografici del laboratorio D-Wok (consulenza iconografica del Museo Egizio di Torino) e con tradizionalissimi costumi odoranti di trovarobato. È il trionfo dell’oleografia da figurina Liebig, accompagnata dagli obsoleti paradossi di una regìa senza firma; un esempio è nella protagonista, che dovrebbe essere una schiava ma fa la primadonna: entra accompagnata da ancelle, veste con gran classe, gira libera per la scena tra il re d’Egitto, la principessa reale e il sommo sacerdote. Quando agli attori si lascia fare di testa loro è un pasticcio, ma peggio è cogliere l’incoerenza nelle poche istruzioni date.

Quella della settimana precedente, poi, era senza dubbio l’Aida di Muti: con i disagi dell’Arena, va bene, ma vistosamente conforme all’idea del concertatore. La recita qui recensita e le quattro del luglio prossimo sono invece dirette da Diego Matheuz, con diverso sbilanciamento (un equilibrio ci sarà forse nelle sei recite di agosto e settembre, condotte da Daniel Oren). Egli dimostra una conoscenza della partitura non tale da poter educare, narrare ed evocare in adeguata autonomia poetica e tecnica: vorrebbe dare regola ai cantanti ma finisce piuttosto per riceverla dai loro comodi; vorrebbe un passo scattante da orchestra e coro, ma non ha carisma che li trascini; vorrebbe dare una lettura asciutta ma invero getta al vento troppi passi memorabili. Il capolavoro di Verdi cade così nella più areniana delle trappole, che entusiasma il melomane di bocca buona ma insieme nuoce alla trasmissione del testo: in mancanza di una chiara idea d’assieme, o quantomeno di un riferimento comune, i cantanti comandano incontrastati e tendono a collaborare tra loro secondo la legge del più forte, prendendosi censurabili licenze di stile e gusto.

Si parla, se non altro, di una compagnia di canto dove già la merce vocale grezza è uno spettacolo. Oltre che una voce di volume transatlantico e impressionante resistenza, Angela Meade, come protagonista, possiede la tecnica necessaria a tornire mirabilmente i suoni. È incline a perdere sfumature, però, proprio ove queste siano prescritte; per esempio, nella romanza all’atto III, il celebre Do sopracuto e il La acuto conclusivo dovrebbero essere l’uno dolce e l’altro smorzato: ed ella li tuona. Si fa le bucce alle note poiché mancano migliori argomenti; l’interprete, infatti, si limita a una trepidanza di maniera: il lavoro sulla parola è appena agli inizi. Anita Rachvelishvili, a sua volta, fa rimpiangere sé stessa per come la conosciamo in contesti più sorvegliati (con Muti e Riccardo Chailly in particolare). La preoccupazione principale della sua premiata Amneris, qui, è pareggiare il tonnellaggio canoro di tanta Aida, e differenziarsene a costo di un troppo esibito registro di petto (che lede poi la nobiltà del personaggio e la messa a fuoco degli acuti) e di un iperrealismo espressivo fuori luogo (non idiomatico, cioè, davanti a un pubblico italofono).

Jorge de León presta a Radamès un registro acuto tuttora notevole per baldanza, squillo e risonanza, benché la linea di canto, prodigiosa dieci anni fa, mostri oggi qualche affanno: terzo straniero in una parte di primo piano, anch’egli trova nella parola italiana più un ostacolo che un paio d’ali. L’inverso vale per Luca Salsi: il suo Amonasro eccelle per continuità di timbro lungo ogni registro e per porgere misurato anche quando protervo, nonché per spontanea intuizione di quei colori musicali che, senza rischio di calligrafismo, sono impliciti nel verso poetico e reclamano di essere onorati. Michele Pertusi aggiunge Ramfis alla sua galleria verdiana. Mette ordine: negli usi teatrali correnti, la parte è affidata perlopiù a bassi di secondo rango provenienti dall’area latina, o a slavi e orientali col loro esotismo timbrico; Pertusi apre bocca e fa godere insieme la magniloquenza ieratica, la cordialità padana, l’esattezza tecnica, la caratura personale, la pregnanza interpretativa che non ha bisogno di digrignare i denti onde definire un antagonista. Solidissimo il Re di Simon Lim, funzionale la Sacerdotessa di Yao Bohui, precisissimo il Messaggiero di Riccardo Rados.


 

 

 
 
 

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