Verona: per Aida un TRON vicino al sol

Fino al 2019, il palcoscenico dell’Arena era uno dei più vasti del mondo. Oggi probabilmente rimane tale, ma la curva disegnata dal led wall di quattrocento metri quadrati pensato come soluzione per i complessi problemi del fare spettacolo seguendo le regole anti-Covid, sia pure all’aperto, ne riduce in maniera evidente la profondità. Se già gestire lo spazio tradizionale era questione molto complessa, adesso allestire un’opera nell’anfiteatro romano di Verona deve confrontarsi paradossalmente con il problema di una dimensione ridotta, che perde una prospettiva naturale (il “confine” erano le gradinate in fondo al palcoscenico) e deve costruirne una artificiale, virtuale come si dice oggi. Di fatto, fino al punto in cui s’innalza il led wall domina la tridimensionalità, poi si entra nel dominio dell’immagine bidimensionale.

Quello che si vede sul mega-schermo – di questo in sostanza si tratta – dovrebbe costruire uno spazio digitale più o meno illusoriamente profondo. Oltre che suggestivo. Da questo punto di vista, la più attesa rappresentazione “in forma scenica” della stagione, quella inaugurata sabato sera con Aida, ha fornito risultati contradditori. La prestigiosa e ampiamente pubblicizzata partnership con il Museo Egizio di Torino consisteva in una suggestiva ma pur sempre limitata “sfilata” delle immagini di straordinari reperti, protagonisti all’inizio e per pochi minuti di un’opera che di minuti ne dura oltre centocinquanta, corredata dalla ricorrente saltuaria presenza di frammenti dal “Libro dei morti” proiettati sullo schermo. Per il resto, lo spettacolo ha proposto una serie di soluzioni visuali di vario tipo e carattere, solo al quarto atto davvero convincenti. Ad esempio, i fondali digitali scelti per la scena del Trionfo alla fine del secondo atto oscillavano fra scenari desertici vagamente distopici, da cartoon digitale, e frenetici movimenti che hanno portato in primo piano una folta serie di architetture egizie, con dinamiche e andamento quasi da videogioco. Nel terzo atto, il notturno in riva al Nilo si è risolto in una gigantografia molto cinematografica e non molto originale di acque, nubi e falce di luna.

In ogni caso, questi elementi visuali (realizzati da D-Wok) si sono misurati sempre con una presenza tutto sommato piuttosto ingombrante di elementi scenografici provenienti dal magazzino areniano, “egizi” in senso assai generico – pareti, pedane, passaggi – intorno e davanti ai quali si giocavano i movimenti di masse sicuramente ridotte (e in maggioranza tristemente ancora con mascherina) e altrettanto sicuramente “costrette” nell’esiguità dello spazio. Per questo, e per l’evidenza del fatto che un’idea registica qualsivoglia non è stata ritenuta necessaria (fino a far scomparire dalla locandina, che pure parlava di “nuovo allestimento”, il termine stesso “regia”), l’impressione è stata quella di una certa pur volenterosa approssimazione. Solo l’ultimo atto e specialmente la scena conclusiva della “fatal pietra” chiusa sopra gli sfortunati amanti Radames e Aida, avviati a morte comune, ha raggiunto dal punto di vista visivo una felice concatenazione fra scenografie reali e virtuali, “raccontando” efficacemente l’incubo claustrofobico e insieme la disperazione di Amneris, che da fuori inscena una disperata ultima veglia per i sepolti vivi.

Poi, un elemento drammaturgico fondamentale nel capolavoro verdiano consiste nella scrittura corale. In questo caso, come peraltro in tutti i titoli di questo molto particolare festival 2021, la scelta è stata quella della totale rinuncia a fare del coro il “personaggio” che effettivamente è. Scelta dettata dalla necessità di ottemperare alle stringenti norme sanitarie di sicurezza, non ne dubitiamo, ma resta il fatto che relegare il coro – di nero vestito, a sottolineare la sua assenza scenica – sul lato più a sinistra della gradinata sopra il palcoscenico, introduce un elemento “oratoriale” laddove dovrebbe esserci puro teatro per musica. E il discorso non riguarda solo lo spettacolo. Così distante non solo dal fuoco dell’azione ma anche dall’orchestra e quindi dal direttore, il coro è la compagine areniana musicalmente più a rischio per l’effetto delle soluzioni emergenziali: in queste condizioni, la coesione, la pulizia degli attacchi, la qualità timbrica, le stesse problematiche acustiche sono una sfida assai complessa.

Data la situazione, il complesso istruito da Vito Lombardi merita solo apprezzamento, perché ad esempio l’Aida inaugurale non ha sofferto da questo punto di vista di problemi troppo evidenti. Il che  non toglie che la posizione dei dipendenti, soprattutto nei settori artistici ma non solo, sia molto critica nei confronti della Fondazione Arena, se è vero che nel documento con il quale le organizzazioni sindacali hanno proclamato lo stato di agitazione a partire dal 25 giugno, si cita specificamente (oltre ai temi legati agli organici) “la totale mancata pianificazione organizzativa […] che non ha permesso l’adeguata e indispensabile preparazione artistica […] per l’apertura del Festival 2021”.

Dal punto di vista musicale, l’Aida inaugurale ha visto il debutto sul podio areniano di Diego Matheuz, che ha proposto una lettura verdiana dai tempi misurati e dai colori discretamente definiti, pur senza particolare brillantezza, dentro a un fraseggio di non particolare smalto. Precisa però la concertazione, attenta a valorizzare la qualità di un cast vocale di peso specifico sicuramente alto. Nel cast svettava per carisma musicale e scenico Anita Rachvelishvili, una Amneris oggi senza eguali per la forza drammatica affidata a una linea di canto sontuosamente flessibile e profonda e per la qualità del colore in tutte le zone della tessitura. Ammirevole anche l’Aida del soprano americano Angela Meade, dal legato seducente (un po’ meno pregnanti i suoni “filati”) e dalla musicalissima adesione alla parola, in elegante equilibrio fra lirismo e drammaticità. Radames era Jorge de León, che si attiene a una linea interpretativa oggi diffusa, nella quale gli accenti eroici sono bilanciati da una introspezione psicologica che forse toglie qualcosa all’esteriorità del ruolo tenorile ma molto contribuisce a una sua definizione meno di maniera. Fra le voi basse, preciso e netto Simon Lim nei panni del Re, a tratti un po’ forzato Michele Pertusi come Ramfis, assai convincente Luca Salsi nel disegnare un Amonasro non banalmente irruento e selvaggio, ma di sfumature espressive a tratti rivelatorie. Completavano adeguatamente il cast Riccardo Rados (il messaggero), e Yao Buhi (la sacerdotessa).

Per l’opera che più di tutte incarna la tradizione melodrammatica in Arena c’era al debutto il pubblico più numeroso visto finora, tenendo conto degli obbligatori distanziamenti. Accoglienze positive, non propriamente entusiastiche. Anche in questa occasione, c’erano Pippo Baudo e Antonio Di Bella ad attirare l’attenzione con le loro chiacchiere prima dell’inizio, nella preparazione degli “speciali” che andranno in onda su Raitre. A differenza di quanto accaduto la sera prima, durante Cavalleria rusticana, un drone si è solo brevemente fatto vedere durante il primo atto ma poi è definitivamente uscito di scena, senza che fossero necessarie ulteriori proteste.

Cesare Galla
(26 giugno 2021)

La locandina

Direttore Diego Matheuz
Direttore allestimenti scenici Michele Olcese
Personaggi e interpreti:
Il re Simon Lim
Amneris Anita Rachvelishvili
Aida Angela Meade
Radamès Jorge de Leòn
Ramfis Michele Pertusi
Amonasro Luca Salsi
Un messaggero Riccardo Rados
Sacerdotessa Yao Bohui
Orchestra coro e tecnici dell’Arena di Verona
Maestro del coro Vito Lombardi

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