L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fra mille comignoli, Parigi

di Luigi Raso

La bohème che apre, prima tappa di una doppia inaugurazione, la stagione del San Carlo brilla per ottimi risultati musicali grazie alla concertazione di Juraj Valčuha e a un buon cast vocale. D'impianto tradizionale, la nuova produzione di Emma Dante sconta qualche eccesso di horror vacui a discapito della resa drammaturgica

Se soltanto due anni fa un ipotetico interlocutore ci avesse predetto che ci saremmo molto emozionati nel tornare, dopo quasi due anni, in teatro per assistere a un’opera proposta in forma scenica, con regia, scene, costumi, orchestra in buca, tanto pubblico in sala e nei palchi, probabilmente non gli avremmo creduto. La normalità, anche a teatro, l’abbiamo data per scontata e acquisita. Eppure quel castello di granitiche convinzioni improvvisamente, nel febbraio 2020, è crollato.

A quasi venti mesi dall’ultima rappresentazione di un’opera in teatro (Norma, qui la recensione: leggi la recensione), dopo un lungo silenzio in teatro, opere date in forma di concerto, all’aperto e al chiuso, in streaming, con prescrizione dell’obbligo di distanziamento sul palcoscenico, capienza ridotta, ecc., finalmente si ritorna anche alla cara e mai tanto rimpianta normalità operistica.

Entrando in teatro, il primo spettacolo è il pubblico: ci si commuove quasi nel rivedere la sala finalmente gremita, i propri vicini di posto, seppure mascherati, senza alcuna separazione interpersonale.E  il ritorno alla normalità riparte dallo spettacolo che avrebbe dovuto inaugurare la Stagione 2020/2021, La bohème, cancellata a causa dell’imperversare della seconda ondata pandemica nello scorso autunno.

Questa Bohème è la prima delle due inaugurazioni della stagione lirica; la seconda sarà, a partire da novembre, l’attesissimo Otello di Giuseppe Verdi diretto da Michele Mariotti, regia di Mario Martone e con il divo Jonas Kaufmann a dar voce al Moro di Venezia.

L’anelito a vivere all’aperto, a superare i confini angusti delle proprie abitazioni sembra pervadere anche il palcoscenico: la regista Emma Dante ambienta La bohème integralmente all’aperto, anche il primo e il quarto Quadro: i quattro amici bohémiens vivono in un fantasmagorico condominio sui tetti di Parigi, attorno i cui immancabili comignoli ruota un’umanità composita e variegata: suore, prostitute, transessuali, saltimbanchi, ubriachi, giovani innamorati. In questo contesto scenografico sono innestate citazioni artistiche (le pitture di Henri de Toulouse-Lautrec, i graffiti di Banksy, la famosa scena dei maccheroni di Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta). Tanto movimento in scena, recitazione curata fino al calligrafismo, personaggi principali raddoppiati da mimi nelle parti musicalmente più significative: la distrazione è d’obbligo, l’horror vacui forse fugato. Uno spettacolo, comunque, malgrado ciò che può immaginarsi leggendo le note di regia, ossequioso alla tradizione, bello da vedere, ma che però appare poco incline a scavare e indagare la drammaturgia del testo.

Le belle scene di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino e le luci di Cristian Zucaro – molto statiche – incorniciano la storia della Bohème in un’atmosfera fiabesca, elegiaca, funeraria nell’ultimo Quadro.L a regista Emma Dante, al suo debutto al San Carlo, ha dichiarato di intendere La bohème come una sospesa favola d’amore, come nel dipinto La Promenade di Chagall. Il tratto favolistico è percepibile, il gioco delle recitazioni raffinato e curatissimo, ma ciò che appesantisce lo spettacolo è l’eccesso di rimandi, talvolta non essenziali, alle esigenze drammaturgiche, citazioni, la presenza ingombrate di una religiosità (le suore, il Cardinale in rosso) che è solo accennata nel libretto, la (onni)presenza dei mimi, l’esposizione di immagini e riti funerari (i tanti lumini cimiteriali e le suore a mo’ di prefiche nell’ultimo Quadro). Ed è un caleidoscopio di personaggi, colori, di animali giocattoli che sfilano a sipario chiuso durante il cambio scena tra il primo e il secondo Quadro: allo spettatore è demandato trarre il troppo e ‘l vano.

A far da contraltare all’idea registica traboccante di orpelli drammaturgici, vi è la meravigliosa direzione di Juraj Valčuha, il quale trova nella partitura dal marcato empito sinfonico della Bohème l’occasione per fornire - dopo Turandot, La fanciulla del West, Tosca, La rondine, tutte affrontate al San Carlo - una delle sue più convincenti riletture pucciniane.

Conduzione trascinante, narrazione tanto serrata quanto incisiva, messa al bando dello stucchevole sentimentalismo, cura maniacale dei colori, giusto risalto ai tratti cameristici pur presenti nella scrittura orchestrale (molto belli gli assoli del primo violino di spalla di Cecilia Laca) sono gli elementi che rendono la concertazione di Valčuha un capolavoro di analisi e approfondimento degli anfratti armonici, ritmici e strumentali della partitura (si ascoltino ad esempio le sonorità grigie durante l’accompagnamento di "Vecchia zimarra") ; ma è la teatralità, l’incisività della melodia che germoglia dall’orchestra, il giusto peso dato al sostegno del canto a realizzare un corpus unicum compatto e vivido del capolavoro pucciniano.

C’è da dire che le ottime intenzioni del concertatore non troverebbero adeguata manifestazione se non disponesse di un’orchestra in stato di grazia in tutte le sue sezioni, che lo asseconda nel dare risalto ad ogni accento e a tradurre in intensità sonora anche la più piccola dinamica. Gli archi diventano vibranti, lancinanti, nell’accompagnare il burrascoso ingresso in scena di Mimì nel quarto Quadro; accompagnano come una carezza, con suono in costante diminuendo, la fine di povera fioraia.

Benché canti con la mascherina, la prova del Coro, diretto da José Luis Basso, si impone per solidità, compattezza e spessore sonoro, perfetta espressione di quella joie de vivre che aleggia nel secondo Quadro. Una prova convincente, nel solco di quelle recentemente ascoltate. Ma a far bene è anche negli interventi fuori scena del freddo terzo Quadro. Preciso, disciplinato e sprizzante di allegria è il Coro di Voci Bianchi guidato da Stefania Rinaldi

Questa produzione della Bohème dà l’occasione per riascoltare, e finalmente all’interno della sala del San Carlo, il soprano Selene Zanetti, dopo le due felici prove come Sacerdotessa nell’Aida in Piazza del Plebiscito dell’estate del 2020 (qui la recensione) e di Micaëla nella Carmen dello scorso giungo, sempre in Piazza del Plebiscito (qui la recensione). Quella della Zanetti è una Mimì dotata di voce corposa, ben emessa, proiettata, dal bel timbro luminoso nel colore; la buona tecnica, l’appoggio e il controllo dei fiati le consentono di sfumare e di delineare una Mimì intensamente innamorata nei primi due quadri ed elegiaca negli ultimi due. Coinvolge il suo "Sì. Mi chiamano Mimì", commuove nel finale il "Sono andati? Fingevo di dormire".

Al Rodolfo di Stephen Costello sono da riconoscere le attenuanti per una prova vocale non esaltante e un’interpretazione generica: il tenore statunitense si presenta in scena con il braccio destro immobilizzato da un tutore per aver rimediato, a pochi giorni dalla prima, una frattura scivolando sui marmi bagnati di pioggia della galleria Umberto I di Napoli. La voce, pur dal bel timbro da tenore lirico, non abbonda quanto a volume e spesso, in particolare nel registro acuto, si dimostra a disagio nell’affrontare i marosi dell’orchestrazione di Puccini. L’emissione non sempre fluida rende la linea vocale accidentata e sforzata nel tratto.

Convince, e molto, scenicamente e vocalmente la Musetta della giovanissima Benedetta Torre: ha dalla sua una notevole ed esuberante vis scenica che le consente di dominare il palcoscenico durante il secondo Quadro con una gestualità spontanea e mai affettata. Alla Torre la regia di Emma Dante richiede tanti movimenti in rapida successione: tutto procede con perfetto sincrono tra canto e recitazione. Grazie a una linea di canto morbida, cantabile, emessa da uno strumento ben organizzato tecnicamente delinea una Musetta mutevole nella psicologia: dispettosetta e provocante nel secondo e terzo Quadro, diventa una donna matura, sinceramente preoccupata per la sorte di Mimì, nel quarto Quadro. Il suo valzer ritrova gli accenti che prescrive Puccini, imprimendo così l’andamento danzante alla melodia, perfetta espressione della psicologia del personaggio. Intensa, grazie anche un registro medio basso corposo e brunito, la preghiera - "Madonna benedetta, fate la grazia a questa poveretta" – del quarto Quadro.

Andrzej Filończyk è un Marcello cantato e recitato benissimo, dal bellissimo smalto timbrico, perfetta dizione italiana, dalla linea di canto morbida e rotonda. Molto efficace scenicamente, Filończyk forma una coppia affiatata con la Musetta di Benedetta Torre anche nelle parentesi delle simpatiche provocazioni e litigi tra i due giovani innamorati.

Dotato di voce dal buon volume, ma eccessivamente ruvido timbricamente lo Schaunard di Pietro Di Bianco; il Colline di Alessandro Spina, pur dotato di timbro e spessore vocale più baritonale che da basso, delinea una "Vecchia zimarra" che sconta qualche ruvidezza di troppo nell’emissione.

Fanno molto bene nelle parti secondarie, essenziali in un’opera come La bohème, Matteo Peirone (Benoît/Alcindoro), Daniele Lettieri (Parpignol), Mario Thomas (Venditore ambulante), Sergio Valentino (Sergente dei doganieri), Giacomo Mercaldo (Doganiere).

Alla fine tanti e prolungati applausi, per tutti.

Lo spettacolo nello spettacolo è il pubblico del San Carlo, il quale felice, entusiasta e fiducioso è accorso numeroso a riprendere possesso di ogni posto del suo teatro. Non si può che ripartire con il vento in poppa dopo una serata come questa!


 

 

 
 
 

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