L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il trionfo delle voci

di Luigi Raso

Una sfolgorante Anna Netrebko guida il successo di Aida al Teatro di San Carlo, in cui spiccano anche la musicalità e l'interpretazione di Yusif Eyvazov come Radames. Meno interessanti la concertazione di Michelangelo Mazza, che può contare su complessi in grande spolvero, e la produzione irrimediabilmente datata di Bolognini/Ceroli/Buti.

NAPOLI, 15 febbraio 2022 - Se Aida ha centocinquant'anni e non li dimostra affatto, l’allestimento firmato nel 1978 da Mauro Bolognini - scene di Mario Ceroli e costumi di Aldo Buti - dimostra tutti - e li porta male! - i suoi quarantaquattro anni di onorata vita teatrale. Produzione “storica”, quella firmata da Bolognini e qui ripresa a Bepi Morassi, nata per il Teatro La Fenice di Venezia e da allora più volte ripresa; una mise en scène che sta a dimostrarci ancora una volta quanto l’aggettivo storico attribuito a una regìa lirica, salvo rare eccezioni, sia sinonimo di “datato”.

Belli i pannelli scenografici dello scultore Mario Ceroli, bellissimi i costumi di Aldo Buti che restituiscono un’idea di Egitto ripulita da sovrabbondanti fasti e orpelli: vi ritroviamo le sfingi, richiami alle piramidi, così come tutto il corredo iconografico che l’egittologia ottocentesca ci ha tramandato tramite la scoperta di geroglifici e pitture egizie; le scene ideate dallo scultore Mario Ceroli, indubbiamente suggestive, eliminando il troppo e 'l vano dalla egittomania imperante ancora nel 1978, si stagliano scultoree su fondali da colori uniformi e cangianti nel corso dell’opera, illuminati dal gioco luci di Fabio Barettin. Una concezione scenografica moderna e innovativa per la sensibilità e le aspettative del pubblico italiano del 1978 - benché già nel 1972, in occasione dell’Aida del centenario al Teatro alla Scala, il gusto estetico e le sforbiciate al bric-à-brac egizio di Pier Luigi Pizzi avessero iniziato a traghettare Aida dalla retorica del fastoso trionfo verso una dimensione intima, popolata da uomini e donne soli - che oggi tuttavia nel complesso ha poco da raccontare: ad ogni epoca il suo allestimento, ad ogni allestimento le sue peculiarità, verrebbe da dire parafrando il motto della Secessione viennese.

A latitare nella messinscena di Bolognini è un vero e proprio disegno registico, un’ipotesi di narrazione del dramma così come declinato da Auguste Mariette, Antonio Ghislanzoni e Giuseppe Verdi tradotta in una coerente concatenazione di movimenti delle masse e dei personaggi: questa Aida appare infatti una successione di tableaux vivants che, per la verità, di vivente hanno ben poco. Una giustapposizione di belle immagini fotografiche, piuttosto che fotogrammi di un video. A guardare lo spettacolo, al di là della gestualità appropriata e convincente dei singoli artisti - che tuttavia appare affidata al loro istinto teatrale -si ha la sensazione di trovarsi dinanzia una produzionein forma semiscenica dell’opera, con la differenza che gli artisti indossano abiti in stile egizio in luogo di quelli da concerto.

Di questa staticità dominante a fare le spese è principalmente il Coro, i cui componenti sono relegati al ruolo di statuine, spettatori poco coinvolti di interventi coreografici, curati da Giovanni Di Cicco, belli da vedere ed efficaci nella realizzazione ma che danno la sensazione di restare, nell’assenza di una sviluppata idea registica, alieni alla drammaturgia dell’opera. La stessa dicotomia scenografica tra oppressi e oppressori, che pur avrebbe dovuto costituire la cifra connotante della regia, alla lunga, perdendone il senso, ci appare stantia e, quanto ai rapporti di forza meramente numerici tra le parti, eccessivamente sbilanciata a favore degli egizi: troppi egiziani in scena e troppi pochi etiopi.

Ci si poteva attendere molto di più da un’orchestra in grande spolvero per qualità di suono in tutte le sezioni (esemplari nei loro interventi solistici il primo clarinetto di Luca Sartori, il primo flauto di Bernard Labiausse e il primo oboe di Hernan Garreffa) e duttilità qual è quella del San Carlo: il direttore Michelangelo Mazza, al suo esordio al San Carlo, si limita a una lettura di routine di Aida, non esente da qualche evidente scompenso sonoro tra buca e palcoscenico, e rinunciataria ad indagare, illuminare ed esporre le gemme armoniche e strumentali che il genio di Verdi riversa nell’ultima opera prima del lungo silenzio operistico, preludio dei linguaggi musicali, sconvolgenti, rivoluzionari e tra lo contrapposti, di Otello (1887) e Falstaff (1893). La concertazione di Mazza non riesce a conferire alla narrazione musicale la giusta dose di teatralità e di incisività; è una conduzione che punta ad essere, al netto degli scompensi sonori ai quali si è accennato, ad usum canti, ancillare nei confronti delle esigenze dei solisti ma dalla veduta d’insieme anodina e non ben calibrata.

Eccelle per precisione, bellezza di suoni, fusione tra le corde vocali e univocità della “voce”, sia quando è in scena - relegato dalla regia al ruolo di atarassico spettatore -, sia quando è dietro le quinte a creare quei sublimi effetti coloristici di cui Verdi ammanta, quasi fossero profumi orientali, la sua Aida, il Coro del San Carlo diretto da un autentico fuoriclasse qual è José Luis Basso: una simbiosi, quella tra il Coro del San Carlo e il suo “ritrovato” (a più di un quarto di secolo dalle prime collaborazioni) direttore, che produzione dopo produzione appare sempre più salda e che consente ad entrambi di inanellare prove dall’indiscutibile pregio artistico.

L’attesa per questa serata, ça va sans dire, è tutta per Anna Netrebko, al suo debutto in una produzione operistica al San Carlo, sebbene lo scorso 17 luglio abbia interpretato su queste tavole la Leonora del Trovatore (qui la recensionera), precipitosamente trasferita da Piazza del Plebiscito all’interno del San Carlo per il rischio di un temporale serale estivo. In quella occasione, però, Il trovatore venne eseguito in forma di concerto; stasera, invece, Anna Netrebko finalmente - è proprio il caso di dirlo! - debutta al San Carlo.

Il sontuoso manto vocale, la naturale ricchezza della voce, la sua proiezione, il timbro avvolgente di una tra le più fulgide vocalità dell’attuale panorama lirico sono tali da catalizzare sin dalle prime note l’attenzione del pubblico; quella di Anna Netrebko è una voce che “corre” per il teatro, perfettamente appoggiata sul fiato, proiettatissima, ricca di colori, contrasti, dal fraseggio screziato: è in primo luogo una gioia per le orecchie ascoltarla. E poi c’è l’interprete, la quale si dimostra coinvolta e coinvolgente. L’assottigliamento dell’emissione di "Numi, pietà del mio soffrire!" ha dell’incredibile, soprattutto se paragonato alle concitate e possenti esclamazioni ("Struggete!", giusto per citarne una) che precedono l’invocazione. Ma gli esempi di una vocalità che è un portento di istintività e bellezza sonora, così come quelli dei momenti di intensa interpretazione sarebbero innumerevoli: ci soffermiamo, tra i vari, sulla grande scena dell’atto III, da "O cieli azzurri…sino a proseguire con il duetto con il padre Amonasro e poi con Radamès: è nell’Atto III che si realizza quella coesione tra la sensualità di un timbro pieno di malia, pastosissimo, compatto nell’intera tessitura e l’interpretazione che sa rendere con immediatezza le immagini di una donna con l’anima divisa tra amore e ragion di Stato, tormentata tra l’amore per il padre e quello per Radamès, fino a diventare, infine, melliflua e astuta indagatrice di segreti militari. In questo atto III non c’è solo la luminosità del do4, ma una donna, sensuale nella voce e nelle movenze, che scolpisce con accenti vocali e una gestualità appropriata ed efficace una figura dilaniata, disperatamente contemporanea.

Il Radamès di Yusif Eyvazov si connota per correttezza vocale, per intensità drammatica e tendenza a fraseggiare e ad alleggerire l’emissione (ben eseguito il si bemolle sfumato nel finale di "Celeste Aida"): l’interprete è intelligente e gli si deve riconoscere che, grazie a una tecnica agguerrita, amministra dignitosamente e valorizza i propri mezzi vocali, gestendo con decoro l’inevitabile e immediato confronto tra il proprio timbro e quello dell’Aida di Anna Netrebko. Un armonico insieme di accenti tribunizi e sognanti è la sua romanza d'entrata; è un Radamès fiero, con acuti timbratissimi, squillanti, ben sostenuti e tenuti a lungo nell’atto III. Infine, Eyvazov scolpisce la scena finale ("La fatal pietra sovra me si chiuse") con accenti drammatici, delinea un lacerato il duetto finale ("O terra, addio"). Una prova, la sua, che ci dà ulteriore conferma della sua eccellente musicalità e dell’ammirevole lavoro di messa a punto di una voce che, pur non imponendosi per bellezza timbrica, diventa strumento duttile al servizio di un interprete intelligente, musicale, preciso e meticoloso.

La Amneris di Ekaterina Gubanova ha purtroppo poco di ciò che il personaggio della figlia del Re egizio dovrebbe possedere: dal punto di vista vocale, difetta di registro grave corposo: quando prova a “gonfiarlo” ne risultano suono artificiali e intubati; sul piano interpretativo, appare priva di quello slancio ferino che la parte richiede (ad esempio, nel duetto dell’atto II "Fu la sorte dell'armi a' tuoi funesta"), laddove si fa ancor più evidente la distanza tra la propria vocalità e quella, timbratissima e possente anche nel registro grave, della Netrebko. I ruoli si invertono: qui a dominare - con naturalezza e senza sforzo, tanto sul piano vocale che su quello interpretativo - è Aida su Amneris. Poco incisiva, purtroppo, Ekaterina Gubanova si dimostra anche nella Scena del Giudizio dell’atto IV: la voce annega nei flutti orchestrali, né si percepiscono quei veementi accenti drammatici che la parte di Amneris - personaggio centrale nell’economia di Aida, scolpito da Verdi con plasticità michelangiolesca - richiede con perentorietà.

Ha classe, voce torrenziale e compatta, timbro dallo smalto brunito l’Amonasro di Franco Vassallo, baritono dalla prestigiosa carriera, in possesso di mezzi vocali ragguardevoli. Il suo è un condottiero di grande polpa vocale, di quelli che, esibendo acuti ben piazzati e tenuti, si impongono per presenza scenica e all’ascolto: Franco Vassallo disegna un Re d’Etiopia che, pur subendo l’umiliazione della sconfitta, grazie a un corredo vocale smagliante e ben organizzato, non rinuncia né ad ostentare l’alteriga della propria stirpe, né a far valere l’auctoritas di Re e paterna nei confronti della figlia Aida.

Signorile e corretto il Ramfis di Riccardo Zanellato, imperativo e inquisitorio nella Scena del giudizio dell’atto IV.

Nelle parti secondarie, fa bene il Re d'Egitto di Mattia Denti, così come la Sacerdotessa di Desirée Migliaccio, artista del Coro, dalla linea di canto pulita e dal timbro suggestivo; efficace il Messaggero di Riccardo Rados.

Al termine, prolungatissimi applausi, scroscianti, convinti e calorosi tributano il successo per tutti. La medaglia d’oro dell’applausometro va, come prevedibile, ad Anna Netrebko, la quale, visibilmente soddisfattta, con la consuenta debordante e naturale simpatia si prodiga a salutare e a mandare baci ai vari settori del teatro in festa.

Un grande successo, per Anna Netrebko e per tutti.


 

 

 
 
 

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