“Turandot” in scena all’Opera di Roma con la regia di Ai Weiwei

Teatro dell’Opera di Roma Stagione di Opere e Balletti 2021-22
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e 5 quadri libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni

Musica di Giacomo Puccini 
La Principessa Turandot  OKSANA DIKA
L’Imperatore Altoum  RODRIGO ORTIZ*
Timur, Re tartaro spodestato  ANTONIO DI MATTEO
Il principe ignoto, Calaf, suo figlio MICHAEL FABIANO
Liù, giovine schiava  FRANCESCA DOTTO
Ping, gran cancelliere  ALESSIO VERNA
Pong, gran provveditore PIETRO PICONE
Pang,gran cuciniere  ENRICO IVIGLIA
Un mandarino  ANDRII GANCHIUK**
Il principe di Persia  CHAO HSIN
Voce del Principe di Persia  GIUSEPPE RUGGIERO
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma ** Diplomato progetto“Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera
Direttore Oksana Lyniv
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia  scene e costumi Ai Weiwei
Luci Peter van Praet
Movimenti coreografici Chiang Ching
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 24 Marzo 2022
Finalmente ha visto la luce il progetto di una Turandot di Puccini affidata all’eclettico e socialmente impegnato Ai Weiwei, regista cinese dissidente a sua volta figlio di intellettuali dissidenti duramente perseguitati dal regime comunista e dalla delirante aberrazione della rivoluzione culturale ma per sua stessa ammissione estraneo al mondo della musica occidentale e in particolare a quello dell’opera se non per aver fatto una volta in giovane età la comparsa proprio in una produzione di Turandot firmata da Franco Zeffirelli. Lo spettacolo sarebbe dovuto andare in scena nel 2020 ma a causa della pandemia purtroppo non fu possibile rappresentarlo e questo però ha offerto al regista la possibilità di rivederlo e ripensarlo anche alla luce dei drammatici recenti accadimenti bellici. L’idea che sembra essere alla base di questa produzione è quella di voler aggiornare e potenziare l’espressività del linguaggio dell’opera con l’uso delle immagini e dei video o meglio coniugando il linguaggio dell’arte cinematografica con quello dell’opera. Quando però si parte da un presupposto ideologico così ambizioso e radicale è facile poi che far quadrare il cerchio risulti più complicato del previsto. L’idea che in Turandot risuonino alcuni dei purtroppo non nuovi drammi dell’umanità che negli ultimi due anni si sono particolarmente accentuati fornendo doverosi stimoli di riflessione come la pandemia, la crisi dei rifugiati, la guerra, i moti di protesta è certamente nobile e degna di apprezzamento. Guai a continuare a suonare, recitare e far film ciecamente come se tutto ciò non accadesse, senza interrogarsi sui perché e sul mondo che ci circonda nel male come anche nel bene. Non ci troviamo su un Titanic ferito a morte dall’iceberg in fase di affondamento ed è sicuramente opportuno che ciascuno sviluppi in proprio senso critico e approfitti di ogni occasione anche attraverso la cultura ed in particolare l’opera che tanto amiamo per stimolare la riflessione personale e sfuggire all’indifferenza. Quello che a nostro avviso non ha funzionato molto nello spettacolo proposto era la eccessiva molteplicità dei linguaggi. In estrema sintesi si trattava di stare a guardare un film proiettato sul fondale mentre contemporaneamente sul palcoscenico si svolgeva l’opera e, dulcis in fundo, in alto venivano proiettati come ormai di moda i soprattitoli in italiano e in inglese. Un po’ troppo per le possibilità del cervello umano di trovare la necessaria concentrazione e, forse, quanto sarebbe bastato nei soggetti predisposti, per fortuna non presenti in sala, per scatenare una crisi comiziale. Per il resto bellissime le luci di Peter Van Praet mentre nell’insieme molto statica e convenzionale è apparsa la recitazione senza una vera e propria indicazione di regia in proposito. Unica nota originale e veramente toccante il principe di Persia impersonato da Chao Hin che alla fine in veste di fantasma copre il corpo di Liù deceduta in circostanze misteriose e ormai esanime con il proprio mantello. Momento molto toccante in una totale assenza di emozioni che sfiorassero in modo sia pur lieve la sfera intima del sentimento. L’opera infine si è conclusa con la morte di Liù perseguendo l’idea che bisognasse rispettare la volontà di Puccini probabilmente incapace (sic) di proseguire nella composizione ed evitando il lieto fine dell’arbitrario e oggi ingiustamente poco apprezzato finale di Alfano lasciando come in un’opera aperta a ciascuno il compito di trovare un modo plausibile per concludere la vicenda. Sul podio la direttrice ucraina Oksana Lyniv anche lei in questo doloroso momento schierata in prima persona contro la guerra e a favore della propria patria, ha cercato sonorità barbariche e aspre tentando di collocare la complessa e articolata scrittura pucciniana più nell’ambito della musica dell’Europa di quegli anni che non della cantabilità italiana ma con alcuni problemi tecnici di attacchi imprecisi, suoni fissi, saltuari ritardi con il palcoscenico forse causati anche da una poca volontà a seguirne le indicazioni da parte di  un’orchestra che è sembrata appiattita e distratta. Inferiore al solito la prestazione del coro diretto dal maestro Roberto Gabbiani. Nel ruolo eponimo il soprano ucraino Oksana Dika ha risolto la parte onorevolmente con acuti aspri ma sicuri e un fraseggio nell’insieme poco vario. Il tenore Michael Fabiano nel ruolo del principe Calaf simpaticamente ribattezzato Ranaf da una signora della platea per la grande rana che portava a mò di zainetto sulle spalle nel primo atto secondo una simbologia sicuramente densa di significati profondi ma lontana da quella occidentale e difficilmente decodificabile, ha cantato la parte con circospezione, dizione chiara e timbro gradevole ma forse senza la ampiezza e la spavalderia che il ruolo avrebbe richiesto. Liù è stata Francesca Dotto sostanzialmente corretta sia pure senza suscitare grandi emozioni e l’unica dei tre protagonisti a saper rendere la varietà e la poesia del fraseggio della melodia pucciniana. Molto bravi Antonio di Matteo sensibile ed efficace Timur e Rodrigo Ortiz del progetto “Fabbrica”, un Imperatore Altoum sonoro, dalla dizione ottima e dall’intonazione adamantina nonostante il consueto scomodo collocamento in palcoscenico. Degli altri forse in serata non felice meglio tacere comunque per rispetto di una evidente seria professionalità. Molto curato ed interessante il corposo programma di sala. E alla fine lunghi applausi per tutti. La favola di Turandot piace e commuove comunque anche con il finale aperto. Foto Fabrizio Sansoni