Recensioni - Opera

Venti di guerra sui Vespri Siciliani alla Scala

Messinscena di ambientazione bellica e corrusca per l’opera verdiana

Ritornano alla Scala di Milano “I Vespri Siciliani” di Giuseppe Verdi dopo un’assenza di oltre trent’anni, risalendo l’ultima edizione al 1989.

Questa nuova produzione scaligera è stata affidata per regia, scene e costumi alla mano esperta del regista argentino Hugo De Ana, che si è avvalso della collaborazione di Vinicio Cheli per il disegno luci e delle coreografie di Leda Lojodice.

De Ana sceglie un’ambientazione di indefinita contemporaneità, caratterizzando i primi due atti su ampi spazi aperti in cui si stagliano prima un cannone e poi un carro armato che non mancano di fare fuoco con grande effetto scenico nei momenti più concitati. In alto si vedono i ponti teatrali con le relative luci, mentre la scena è inquadrata da grandi quinte grigie semoventi, che richiamano le pareti di bunker e casematte. Un’atmosfera di plumbea oppressione bellica dunque, con il frequente utilizzo di bare e urne funebri che appaiono e scompaiono alla bisogna. A condurre la drammaturgia due personaggi muti ispirati al “Settimo Sigillo” di Ingmar Bergman: la figura della morte e del crociato che giocano la nota e mortale partita a scacchi. Essi compaiono all’inizio e alla fine dell’opera, oltre ad essere presenze mute e simboliche in quasi tutte le scene.

Una regia a metà fra simbolismo e naturalismo dunque, con ampio utilizzo dei tableaux vivant tanto cari al regista argentino. Certo, se il colpo d’occhio è sempre accattivante e piacevole, il tutto soffre ben presto di monotonia e ripetitività, con i cantanti per lo più immobili in pose sceniche tradizionali e scontate. Non mancano qua e là richiami alla Sicilia, con simboli religiosi e una Santa Incoronata, che però si limitano ad essere arredo senza una reale pregnanza scenica.

I conquistatori francesi hanno le fogge di soldati che ricordano la seconda guerra mondiale, mentre per i costumi dei ribelli siciliani non si sfugge ad una certa genericità e ad un bozzettismo da Sicilia ottocentesca, fino a vestire la Duchessa Elena in nero come una Santuzza ante litteram. Le brevi coreografie di Leda Lojodice, il gran ballo del terzo atto è stato in questa edizione soppresso, risultano poco amalgamate con il tutto.

Insomma una messa in scena accurata, anche piacevole a tratti, con una profusione di mezzi degna della Scala, ma che non illumina mai realmente la partitura o la drammaturgia della complessa opera verdiana.

Lo stesso vale per l’ottima compagnia di canto, in cui tutti fanno il proprio dovere senza però che, al di là delle migliori intenzioni, si percepisca quel qualcosa in più che rende compiuta ed indimenticabile una serata all’opera.

Luca Micheletti è un ottimo Guido di Monforte con voce salda, fraseggio preciso e accenti appropriati, che però non riesce a sollevarsi da una certa genericità che attanaglia tutta la produzione. Lo stesso dicasi per la brava Marina Rebeka, che canta da par suo con finezza e proprietà d’accento, ma è chiaramente penalizzata dalla regia e da un costume infelice. Simon Lim staglia con autorevolezza un Giovanni da Procida concepito come un burocrate della congiura. Mentre Matteo Lippi, che ha sostituito all’ultimo l’indisposto Piero Pretti, convince con una linea di canto eroica e accurata. Ottimi tutti i comprimari, fra cui spiccava per sonorità e accento il Sire di Bethune di Andrea Pellegrini.

Buona la prova del coro diretto da Alberto Malazzi e dell’orchestra scaligera, sotto la bacchetta di Fabio Luisi.

Il teatro, affollato anche di molto pubblico straniero, ha tributato molti applausi a tutti gli interpreti.

Raffaello Malesci (Martedì 14 Febbraio 2023)