Peter Grimes

foto © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala

Benjamin Britten, Peter Grimes

Milano, Teatro alla Scala, 21 ottobre 2023

★★★★☆

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Britten a Milano nella intensa lettura di Simone Young e Robert Carsen

Quattro anni prima di Peter Grimes Benjamin Britten aveva iniziato la sua carriera di compositore di musica per il teatro con Paul Bunyan, un’operetta su libretto di W.H.Auden in un prologo e due atti presentata alla Columbia University nel 1941 senza successo, tanto che non fu mai più rappresentata e l’autore la ripropose solo 35 anni dopo come opera vera e propria in un prologo e tre atti.

Peter Grimes è dunque il suo primo lavoro di successo, indiscusso fin dalla prima del 7 giugno 1945 al Sadler’s Wells di Londra con il compagno Peter Pears nella parte del titolo. Nel dicembre di quello stesso anno viene trasmessa dalla radio italiana l’esecuzione di Fernando Previtali dall’auditorium RAI nella traduzione di Massimo Mila. Nel 1969 ci sarà una registrazione video con il compositore alla guida della London Symphony Orchestra, ma innumerevoli saranno le produzioni di questo che è considerato un capolavoro del Novecento. E molte alla Scala: la prima, «novità per l’Italia», nel marzo 1947 (Tullio Serafin sul podio e un cast quasi tutto italiano); la seconda nel 1976 è la produzione importata da Londra con Colin Davis e Jon Vickers; autenticamente scaligera è invece quella del 2000 con Jeffrey Tate e Philip Langridge; l’ultima è di undici anni fa con Robin Ticciati e John Graham Hall nell’allestimento di Richard Jones. 

L’interesse e l’attesa di questa nuova produzione milanese stanno nella messa in scena di Robert Carsen, ma anche nella direzione di Simone Young. La sua conduzione è drammatica e piena di pathos: la direttrice australiana alterna le sonorità aspre dei momenti drammatici con i momenti più lirici e trasparenti e negli interludi fa sentire la forza di quel mare che la regia invece non ci fa vedere. La scenografia di Gideon Davey è costituita da un unico ambiente chiuso di legno, con una balconata praticabile in alto e una porta sul fondo, che di volta in volta diventa aula di tribunale allestita nel municipio, il pub (e basta mettere il bersaglio delle freccette al posto dell’orologio), la piazza o, restringendosi, la squallida capanna di Peter. Il resto lo fanno le come sempre splendide luci di Peter van Praet e dello stesso Carsen, i video di Will Duke e le coreografie di Rebecca Howell, che fa muovere con precisione ed efficacia gli innumerevoli “servi di scena” che spostano panche e altre suppellettili o si trasformano in un branco quando perlustrano il villaggio a caccia del “colpevole” e con le loro torce elettriche gettano fasci di luce anche verso gli spettatori – un momento inquietante tanto quanto quello dei poliziotti di Castellucci scesi in platea nel suo Bros. Anche noi siamo in pericolo, ognuno di noi potrebbe essere sospettato di colpe che non ha commesso o che sono state ingigantite. 

The Borough, la raccolta di poesie di George Crabbe del 1810, ha una sua ambiguità che il libretto di Montagu Slater e la musica di Britten non risolvono: chi è veramente Peter Grimes? quanto è colpevole? L’ipotesi peggiore è che sia direttamente responsabile della morte dei suoi aiutanti per coprire un terribile segreto, quello di averne abusato sessualmente. Oppure si tratta soltanto di malcuranza nei loro confronti dettata dal suo passato di abbrutimento, dal suo carattere reso ancora più indisponente dalla opprimente società chiusa e occhiuta che cerca un capro espiatorio, che vede il male anche dove non c’è, un atteggiamento incarnato dalla figura dell’intrigante di Mrs. Sedley. Questo non lo sapremo mai, su questioni come queste Britten aveva tutte le ragioni per essere reticente in un’epoca e in un paese che considerava criminale l’omosessualità, che aveva condannato qualche decennio prima il suo maggiore scrittore, Oscar Wilde, e di lì a pochi anni avrebbe costretto al suicidio il suo più grande scienziato, che aveva contribuito a sconfiggere il Nazismo, ossia Alan Turing. La lettura di Carsen non prende un partito deciso: il suo Peter è violento con gli orfani che gli vengono “forniti” ma ha anche anche qualche momento di delicatezza prima di partire per l’ultima pesca, si comporta in modo aggressivo con l’unica donna che lo ama e vuole salvarlo. In quelle condizioni, con quel Borough che «keep its standards up», come continua a ripetere, che «avvelena la mente», chi si comporterebbe in maniera diversa?

Nel finale inventato da Carsen l’ultima scena ripete la prima, quella della sala municipale trasformata in tribunale, dove un altro Peter viene sottoposto a processo. Richard Jones nel suo allestimento del 2012 aveva invece messo Ellen sul banco degli imputati nel finale. Insomma, nessuno si salva. Nessuno è sicuro. Oppure c’è un’altra interpretazione: è lo stesso Peter che mentre giura sulla Bibbia ripercorre la vicenda che l’ha portato sul banco degli imputati e l’intera opera diventa un monologo interiore, un flusso ininterrotto di coscienza. Chissà. Carsen riesce a portare a un livello ancora superiore l’ambiguità del Peter Grimes.

Nell’interpretare la parte eponima si sono avvicendati, come abbiamo visto, interpreti importanti, ognuno con una sua particolarità. Del tenore americano Brandon Jovanovich si può ripetere quello già detto per altre sue interpretazioni: la voce ha una bella proiezione, ma la linea di canto è spezzata, cambia nei passaggi di registro e il timbro si sbianca nell’acuto. È però un eccellente attore sotto le mani di Carsen e delinea un carattere quasi espressionista che fa ancor più risaltare i momenti lirici che gli sono assegnati da Britten. Accanto a lui la Ellen di Nicole Car ha tutta la fragilità di chi sente già persa in partenza la sua buona causa espressa con grande liricità e purezza di canto. Buono il resto del caso con l’autorevole baritono islandese Ólafur Sigurdarson, l’umano Captain Balstrode, la pettegola Mrs. Sedley di Natascha Petrinsky, l’iconica Auntie di Margaret Plummer, il Swallow di Peter Rose, il Ned Keene di Leigh Melrose, ma sarebbero tutti da citare. E poi c’è il coro, diretto da Alberto Malazzi, che ha dato una prova superlativa per coesione, espressività, forza e presenza scenica, una qualità non sempre scontata nei cori dei teatri italiani.

«Dopo Purcell non s’era più scritta un’opera valida [in Inghilterra], salvo quelle italiane del tedesco Händel», scriveva Massimo Mila nel 1976. Adesso però sarebbe ora di far conoscere anche altri titoli di Britten, Gloriana ad esempio non è mai arrivata nel nostro paese e di Albert Herring e Owen Wingrave non si hanno grandi frequentazioni. Altre due produzioni di Peter Grimes nei teatri italiani dimostrano invece la popolarità di questo lavoro: dopo quella recente di Paul Curran alla Fenice di Venezia (con Juraj Valčuha e Andrew Staples), all’Opera di Roma in questa stagione è in cartellone quella di Deborah Warren (Michele Mariotti e Allan Clayton). 

Alla fine della recita gli applausi calorosissimi e prolungati hanno premiato tutti gli artefici dello spettacolo con punte di entusiasmo per Simone Young.

Una nota a parte merita il programma di sala stampato per l’occasione, un esaustivo mezzo di accompagnamento alla comprensione dell’opera e approfondimento dei suoi aspetti, con una messe di interventi di eccezionale livello. I programmi della Scala sono sempre tra i migliori, nessun altro teatro, neppure quelli dei teatri più blasonati all’estero, si avvicina alla qualità di questi. Sono documenti da conservare gelosamente.