Hoffmann Ivan Ayon Rivas
La Muse Paola Gardina
Nicklausse Giuseppina Bridelli
Lindorf, Coppélius, Le docteur Miracle, Dapertutto Alex Esposito
Andrès, Cochenille, Frantz, Pitichinaccio Didier Pieri
Olympia Rocío Pérez
Antonia Carmela Remigio
Giulietta Veronique Gens
La Voix  Federica Giansanti
Nathanaël Christian Collia
Spalanzani François Piolino
Hermann/Schlemill Yoann Dubruque
Luther, Crespel Francesco Milanese

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
direttore Frédéric Chaslin
maestro del Coro Alfonso Caiani
regia Damiano Michieletto
scene Paolo Fantin
costumi Carla Teti
luci Alessandro Carletti
coreografia Chiara Vecchi

Recita del 26 novembre 2023

Un lampo, un batter d’ali di farfalla, e il mago ha già compiuto il suo incredibile inganno, azionando i fulminei ingranaggi della prestidigitazione, intessuti di sparizioni, sostituzioni, movimenti invisibili, colori sgargianti, tranelli visivi e sguardi ammaliatori. Come in un grande spettacolo di magia, di quelli in cui l’estetica del trucco e della sorpresa va sempre di pari passo all’abilità del prestigiatore e della sua squadra di assistenti, in questo fantasmagorico allestimento de Les contes d’Hoffmann si è mostrato ai nostri occhi un microcosmo in continua trasformazione, scenografica ed immaginifica, dove di volta in volta anche il più piccolo personaggio assumeva il ruolo di protagonista e parte integrante dell’azione.

C’era di che rimanere sconvolti, stupiti, estasiati ad ogni occhiata rivolta verso un qualsiasi luogo del palcoscenico, in una girandola di idee così perfettamente realizzate e interconnesse da commuovere e produrre prolungate “pelli d’oca”, fossero momenti di esplosiva ironia o situazioni di malinconia grottesca. Il tutto, poi, era così vivo, animato, ma soprattutto ragionato, che lo spettatore non poteva che soccombere dolcemente al divertimento, alla bellezza, all’intrattenimento spaziale, fotonico, di un’opera così fantastica e fantasticamente realizzata. Damiano Michieletto, non si potrebbe riassumere diversamente, firma con questo spettacolo uno dei suoi migliori in assoluto, tra i tanti visti, sostenuto, come è imprescindibile consuetudine, da quel genio della scenografia di Paolo Fantin, che qui ha fatto un lavoro da vero artista, dai giochi di luce ed ombra di Alessandro Carletti, dai costumi ora eleganti, ora ammiccanti, ora bizzarri di Carla Teti, sino alle coreografie, tante e belle, di Chiara Vecchi.


A partire dal viaggio fisico e mentale di Hoffmann, ai confini della realtà, dell’amore e del male incarnato, l’opera è stata riletta come un romanzo di formazione, di educazione sentimentale e sessuale favolosa, in cui un vecchio Hoffmann, nel prologo, inizia a raccontare le sue infauste passioni, dalla giovinezza fino alla maturità, adombrate e distrutte dal perfido Lindorf, lui sì vero demone-stregone dotato di poteri soprannaturali: Iván Ayón-Rivas è semplicemente l’interprete ideale per il ruolo del protagonista, vocalmente ineccepibile, a tratti sorprendente per la giovane età, con una immedesimazione scenica già compiuta: è stato un piacere ritrovarlo ancora, e per giunta ad un simile livello qualitativo, siglato da un successo personale notevole; la controparte maschile e malvagia, divisa in quattro anime nere, è stata campo di battaglia, senza esclusione di colpi, per Alex Esposito: il basso-baritono ha svolto il ruolo di mattatore indiscusso sotto ogni aspetto, catalizzando l’attenzione per il fraseggio scolpito, il timbro fascinoso e la potenza recitativa debordante, che mai gli è mancata in passato, ma che qui ha potuto deflagrare quasi senza argini; di sorprendente freschezza e forza si è dimostrata ancora una volta la voce di Carmela Remigio, soprano dall’onerosa e gloriosa carriera, qui tanto raffinata e pulita nella linea di canto da lasciare interdetti (poco importano alcune asperità nell’emissione): il “suo” atto, di Antonia, ha brillato di luce propria; ottima e molto meno “robotica” di quanto ci si aspetti normalmente l’Olympia di Rocío Peréz.

La sua aria, eseguita con gran gusto, eccellente controllo delle colorature e del registro acuto, è stata applauditissima; bene anche la raffinata Giulietta di Veronique Gens, cantante solitamente impegnata in altro repertorio, qui purtroppo sacrificata nell’espressione del personaggio dai tagli della versione adoperata (non si poteva fare proprio a meno di optare per questa edizione “pastrocchio”? La lecita domanda è rivolta a chiunque abbia fatto una scelta simile, molto d’antan, troppo se si pensa all’esistenza dell’edizione critica Keck-Kaye, la migliore in campo); Giuseppina Bridelli, poi, ha sfoggiato voce corposa ed ottima musicalità per dar vita a un Nicklausse quanto mai vivo ed attivo in questo allestimento (una sorta di pappagallo fatato, fedele compagno di Hoffmann).

D’insolito ed apprezzabile spessore anche la Musa di Paola Gardina, qui un tipo bizzarro di fata madrina buona e un po’ distratta; il giovane tenore Didier Pieri è stato più che mai occupato nella realizzazione di ben quattro ruoli diversi: del folto gruppo di cantanti che ricoprono le cosiddette parti di fianco o secondarie (qui rese tutte primarie dalla maniacale regia) si è dimostrato senza dubbio il migliore: scenicamente smaliziato e vocalmente brillante. La sua non facile aria del secondo atto, che lo vedeva nei panni di un vecchio maestro di danza, è risultata tanto gustosa quanto complessa: cantare e muoversi con scioltezza, gestendo con ironia delle giovanissime ballerine in erba, ha sparso sincere risate e gli è valso un caldo applauso.


Bene, infine, anche La Voce di Federica Giansanti, il Nathanaël di Christian Collia, l’ottimo Yoann Dubruque, nel doppio ruolo di Hermann e Schlémil, Francesco Milanese nelle vesti di Luther e Crespel, e lo Spalanzani di François Piolino.
Ad un eccezionale apparato vocale, scenico e registico non è corrisposta un’altrettanto frizzante e sgargiante direzione: Frédéric Chaslin, che in carriera ha diretto più di settecento Racconti, qui è risultato pesante, scolorito nelle emozioni e troppo uniforme nella scelta dei colori; laddove si poteva eccedere il direttore è sembrato trattenersi, risultando di contro troppo fragoroso quando un volume più raccolto avrebbe di certo giovato.

Anche i tempi, a tratti tanto dilatati da far perdere consistenza alla musica, non hanno convinto (forse anzi messo in difficoltà il palco). Insomma, la musica di Offenbach ha emozionato e coinvolto soltanto per l’elevata qualità dell’Orchestra del Teatro La Fenice, del suo Coro, per gli interpreti tutti, e per l’indiscutibile potenza della regia.

Alla fine è rimasta la voglia, come al parco divertimenti, di correre di nuovo in fila per rifare l’attrazione che tanto ci ha emozionati e divertiti: questo è vero teatro e vero spettacolo.

Mattia Marino Merlo