Alla Scala un Attila cinematografico

Lo spettacolo inaugurale alla presenza del capo dello stato, applauditissimo

Attila
Attila
Recensione
classica
Teatro alla Scala, Milano
Attila
07 Dicembre 2018 - 08 Gennaio 2019

L'inaugurazione della stagione scaligera 2018-19 è stata segnata dagli interminabili applausi tributati al presidente della Repubblica alla sua apparizione nel palco reale. Per sei minuti, con tutti gli spettatori in piedi a manifestargli sostegno e fiducia in questi mesi di sbandoni e imperizia politica. Poi inno  nazionale di prammatica e attacco del preludio. C'è da dire che l'opera del giovane Verdi ha goduto di un trattamento superiore ai suoi meriti, perché dopo il Prologo e il Primo atto si avverte un indubbio calo d'intensità drammaturgica e musicale (per altro notato dallo stesso Verdi in una lettera alla contessa della Somaglia dopo la prima alla Fenice). Ciò nonostante l'impegno e la passione profusa da Riccardo Chailly, che ha curato nei minimi particolari ogni passaggio, ottenendo così dall'orchestra una solida e analitica compattezza. Perfino rischiando tempi lenti nei momenti sacrali o misteriosi, senza mai rinunciare alla tensione. Il buon esito della serata lo si deve naturalmente anche agli eccellenti interpreti. Ildar Abdrazakov nel ruolo del protagonista ha dalla sua una voce calda e un'indubbia presenza fisica, forse il personaggio del villain galantuomo avrebbe meritato in certi momenti maggiore rabbia, specie nel terzo atto quando viene piantato in asso dalla novella sposa, non limitandosi a cantare. George Petean ha ben calibrato dignità e doppiezza, dando grande peso alla figura di Ezio, mentre Fabio Sartori nei panni di Foresto si è dimostrato un ideale tenore verdiano, riuscendo a dare nerbo e credibilità anche ai momenti più retorici. Saioa Hernández ha prestato la sua voce straordinaria a Odabella, ma senza infonderle il necessario impeto belluino nella Cavatina del primo atto. Né avrebbe guastato che poi avesse mostrato qualche forma di d'attrazione nei confronti della sua futura vittima (dopo tutto Giuditta con Oloferne ci è andata a letto), perché avrebbe fatto dell'unico personaggio femminile una figura più complessa. Ma Livermore l'ha voluta segnare unicamente col trauma infantile dell'uccisione del padre, proiettando un filmato in bianco e nero del fattaccio e riproponendolo nel momento della vendetta finale, senza lasciare spazio ad altro genere di turbamenti. Il regista ha firmato uno spettacolo kolossal, riprendendo la formula del suo Tamerlano dello scorso anno, ma gestendola con maggiore perizia nel trasportare di peso la trama di Attila in anni d'infausta memoria del ventesimo secolo: Attila dittatore in divisa militare nera, Odabella con la toilette e la pettinatura della sua amante storica, ma anche potenziale partigiana. Livermore non si cura troppo del significato che alcune immagini conservano per rimanere agrappate alla Storia e le utilizza come meri elementi per illustrare un ipotetico futuro. Col rischio  di crerare un accumulo, il cui filo logico talvolta si perde. Nello spettacolo per esempio affiorano gli umori risorgimentali di quando Attila debuttò a Venezia, alla vigilia dei moti del '48 e della effimera Repubblica di San Marco, così come è illustrata la lotta partigiana durante la Repubblica di Salò, mentre la presenza dell'arco romano di Palmira spiazza di nuovo perché dà una precisa connotazione attuale ai profughi di Aquileia. Lo spettacolo, anche se talvolta di ardua lettura, procede comunque spedito, con continui cambi di scena e molte situazioni a effetto. Livermore ha sfruttato le sofisticate tecnologie video di D-Wok per far sgretolare e ricomporre le rovine della città sul fondale. Ha illustrato in bianco e nero il sogno di Attila riproducendo l'affresco di Raffaello con l'incontro con papa Leone animandone i vessilli, e poco dopo lo ha riproposto identico come un tableau vivant in scena, sul quale però aleggiano le figure di Pietro e Paolo muniti di spadoni.

Meno felice il secondo atto, con un orgia tipo Caduta degli dei, che non riesce a risolvere la staticità del lunghissimo concertato ridotto a rimanere in proscenio, con alle spalle un continuo gesticolare di travestiti e fanciulle seminude con stivaletti e berretti militari, tipo Portiere di notte. Spariti i Druidi, se non vocalmente, perché portano divise militari poco consone alle loro capacità di profeti di sventure.

All'apertura del terzo atto Chailly ha scelto di dirigere l'aria composta da Verdi per il tenore Napoleone Moriani che impersonò Foresto alla prima alla Scala la sera di Santo Stefano del 1846 e bene ha fatto perché è stata una gradevole scoperta. Mentre sono forse passate inascoltate le cinque misure che Rossini avrebbe voluto inserire prima del Terzetto (la partitura è nella seconda sala del Museo della Scala, con la scritta Ritournelle pour l'Adagio du Trio d'Attila, sans la permission de Verdi) e che Chailly ha voluto inserire per i centocinquant'anni dalla morte del pesarese, affidandole agli archi mentre la scena si è fatta per un momento rosso fuoco. Poi è ripresa la preparazione dell'attentato ad Attila, con qualche ingombro di troppo di soldati sdraiati per terra coi fucili spianati che cambiano continuamente di posto (in tutto lo spettacolo sono impari gli spari in sordina delle armi da fuoco rispetto allo stramazzare dei corpi in scena). Il tirannicidio finale è risultato macchinoso perché Attila, a cui vengono legate le mani dietro la schiena, è costretto su una poltrona con la quale rotola a terra dopo essere stato pugnalato dalla patriota Odabella che sventola il tricolore. Lo stesso che sventolava il suo povero padre.

Al termine un quarto d'ora di applausi per tutti, con qualche timido buu indirizzato al regista, ma tutto sommato un 7 dicembre scaligero di successo.

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