“Il re pastore” di Mozart al Teatro La Fenice di Venezia

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2018-2019
IL RE PASTORE”
Dramma per musica in due atti kv 208. Libretto di Pietro Metastasio.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Alessandro, re di Macedonia JUAN FRANCISCO GATELL
Aminta, pastorello ROBERTA MAMELI
Elisa, nobile ninfa di Fenicia ELISABETH BREUER
Tamiri, principessa fuggitiva SILVIA FRIGATO
Agenore, nobile di Sidone FRANCISCO FERNÁNDEZ-RUEDA
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Federico Maria Sardelli
Maestro al cembalo e continuo Roberta Paroletti
Violoncello continuo Alessandro Zanardi
Regia Alessio Pizzech
Scene Davide Amadei
Costumi Carla Ricotti
Light designer Claudio Schmid
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 21 febbraio 2019
A distanza di una settimana dal debutto del Sogno di Scipione, va in scena alla Fenice Il Re pastore di Mozart, sotto la direzione – come l’opera precedente – di Federico Maria Sardelli: secondo pannello di un dittico mozartiano intorno al tema del potere, su testi di Metastasio. Il Re pastore – a parte il richiamo alla parabola evangelica – è espressione piena dell’Arcadia e del suo sistema di valori, esaltando la modestia, la fedeltà, il governo illuminato del sovrano. L’occasione per mettere in musica il libretto metastasiano – già intonato da una schiera di musicisti – fu per il diciannovenne Mozart – nominato Konzertmeister presso la corte arcivescovile salisburghese, al suo ritorno da Monaco – la visita a Salisburgo, verso la fine di aprile del 1775, di un suo nobile coetaneo: l’arciduca Maximilian Franz d’Asburgo, figlio cadetto di Maria Teresa – nonché futuro mecenate di Beethoven – allora in viaggio da Vienna verso Venezia per compiere quel Grand Tour, che era all’epoca un’esperienza educativa fondamentale per i rampolli della buona società. I festeggiamenti, organizzati dall’arcivescovo Colloredo, in onore dell’ìnclito ospite contemplavano – oltre all’esecuzione del dramma musicale mozartiano – anche quella di un’altra opera su libretto di Metastasio, Gli orti esperidi, per la musica del napoletano Domenico Fischietti, il Kapellmeister di corte. Nonostante l’impegno, profuso dal giovane Amadé, l’opera è ben presto caduta in un lungo oblio: certa critica rimproverava al Re pastore una carenza di sviluppo drammatico e di approfondimento psicologico, senza considerare che un genere come quello dell’”opera pastorale”, risponde a peculiari parametri estetici, diversi, ad esempio, da quelli romantici. In realtà, anche in base a questa partitura, Mozart ci appare un compositore già completo e maturo, precocemente formatosi, analogamente ad Atena, che nacque, uscendo armata di tutto punto dal capo di Zeus: l’espressione degli affetti è, nelle arie, qualcosa di profondo e sublime. Uno stesso personaggio, mano a mano che si trasforma, viene connotato musicalmente in modo diverso: ad esempio, da una serena aria pastorale può passare in seguito ad arie, che esprimono uno stato di angoscia e agitazione, come l’aria della disperazione di Tamiri. Nell’opera, inoltre, si susseguono numerosi recitativi accompagnati, intensamente espressivi. Sul podio Federico Maria Sardelli si è confermato un fine interprete, il cui senso della misura, della classica compostezza non ha escluso la capacità di valorizzare ogni dettaglio, ogni piccola gemma di questa partitura, dove un ruolo di spicco viene assegnato agli interventi concertanti di determinati strumenti, come il violino solo, i corni inglesi, i fagotti, i due flauti – complici ovviamente la professionalità e la sensibilità degli orchestrali coinvolti. Il direttore è pienamente riuscito a rendere le sfumature, i contrasti, l’ampia tavolozza di colori orchestrali, utilizzata da Mozart, che, anche attraverso opportune scelte formali, riesce ad esprimere i cambiamenti di clima psicologico all’interno dei singoli personaggi. Il tutto con una diffusa leggerezza di tocco, uno spiccato senso del ritmo e una prefetta sintonia con i cantanti. Questi ultimi – tutti giovani – si sono dimostrati tutti all’altezza della situazione: ricchi di pathos e attenti alle valenze musicali della parola nei recitativi accompagnati; espressivi ma anche dotati di senso della forma nelle difficili arie, spesso dalle impervie colorature, dove peraltro talora si è colta qualche incertezza. Autorevole è risultata Roberta Mameli nel ruolo di Aminta, che si è sottratta ad ogni cliché di maniera e ha offerto un personaggio credibile, con voce corposa e ben timbrata, brillando nell’aria più celebrata di quest’opera: “L’amerò, sarò costante”, pagina sublime, che si è avvalsa del raffinato intervento concertante del primo violino. Le ha fatto eco un’Elisa, delineata da Elisabeth Breuer con adeguate doti espressive e vocali, sfoggiando un timbro cristallino e segnalandosi nella complessa e accorata “Barbaro! oh Dio mi vedi”. Al pari di Silvia Frigato nei panni di Tamiri, che si è imposta nell’aria di disperazione “Di tante sue procelle”. Autorevole è apparso l’Alessandro di Juan Francisco Gatell, dotato di una voce gradevolmente timbrata, per quanto non sia sembrato sempre a suo agio nelle colorature. Apprezzabile, comunque, la sua “Se vincendo, vi rendo felici”, l’aria più estesa, impreziosita dall’intervento concertante del flauto in gara con la voce. Si è fatto onore anche Francisco Fernández Rueda nell’esprimere il tormento di Agenore, in particolare nella cupa “Sol può dir come si trova”, l’unica aria in tonalità minore. Quanto alla regia, Alessio Pizzech ha inteso estremizzare il contrasto tra “privato” e “pubblico”, tra i sentimenti più intimi dei personaggi e la visione politica di Alessandro Magno – che peraltro persegue il nobile obiettivo di pacificare Sidone, dopo averla liberata dalla tirannia di Stratone. Nella sua lettura – più che Aminta – l’epicentro del dramma è Agenore, che conosce le motivazioni profonde della vicenda, quei sentimenti segreti, che alla fine emergeranno prepotentemente in superficie: dall’amore di Agenore per Tamiri, la figlia del tiranno, alla lacerazione interiore di quest’ultima in seguito al suicidio del padre. Novella Elettra, la fanciulla vuole vendicarlo come attesta la valigia, che si porta appresso, contenente una spada … Valigia, che nel contempo rimanda anche alla sua condizione di profuga, costretta ad abbandonare Sidone distrutta. Il disagio interiore dei personaggi si esprime in uno spazio simbolico, fuori del tempo. Per una volta il pedissequo richiamo all’attualità è scongiurato – tranne poche eccezioni, tra cui la ricordata allusione all’emigrazione forzata di Tamiri. La dimensione quasi metafisica, in cui si svolge lo spettacolo, ne fa una sorta di parabola, valida in ogni epoca. Il pastore Aminta abita in un vecchio autobus, che campeggia su un paesaggio assolutamente brullo, ma al cui interno è fiorito miracolosamente un albero, i cui rami frondosi – rigogliosi come l’amore tra il pastore e la ninfa Elisa – sbucano da un finestrino. Lo stesso albero si erge sulla scena dell’accampamento di Alessandro, ma si tratta di una pianta stecchita, che contrasta con le alte siepi verdeggianti, che delimitano lo spazio, a simboleggiare una presunta aridità del Macedone. I suoi rami rifioriranno solo quando quest’ultimo si dimostrerà magnanimo verso le due coppie di innamorati. Funzionali all’impostazione registica sono risultate le scene di Davide Amadei, improntate ad una metafisica essenzialità, al pari dei costumi di Carla Ricotti, cui va aggiunto il sapiente uso delle luci da parte di Claudio Schmid. Nel complesso la messinscena è risultata abbastanza gradevole ed efficace sul piano drammaturgico. Calorosi applausi hanno salutato gli interpreti e i responsabili di questa produzione.