L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Profumo alla Rivoluzione

 di Antonino Trotta

Nell’allestimento emiliano dell’Andrea Chénier, in scena al Teatro Municipale di Piacenza, Saioa Hernandez è l’elemento di traino di una compagnia dove ben figurano anche Martin Muehle e Claudio Sgura. La regia di Nicola Berloffa e la direzione di Aldo Sisillo risolvono a metà il dramma di Giordano.

Piacenza, 24 Febbraio 2018 – Nel regime del terrore la ghigliottina è il vessillo delle armate popolari, spada e scudo nelle mani della borghesia che ascende e fa propri i vizi della vecchia aristocrazia, l’ara dove si celebrano gli ideali della rivoluzione e la tomba che ne accoglie lo spirito. Dalla fierezza con cui questa ideologia si staglia su un futuro diviso tra sans culottes e sans tête e dalla rapidità con cui si sgretola sotto l’ebrezza del potere – e di tale putrescenza si sente anche oggi il cattivo odore – i personaggi e le personalità dell’Andrea Chénier, l’opera che insieme alla Tosca marzolina celebrerà il centenario della scomparsa di Luigi Illica al Teatro Municipale di Piacenza, acquistano forma e consistenza.

Nicola Berloffa, regista nell’allestimento emiliano dell’opera di Giordano, si adopera con buone intuizioni nella descrizione del caotico spaccato sociale che l’Andrea Chénier offre, ritraendo della Parigi di fine Settecento ogni piega e ogni contraddizione. Se qualcuno vede vivere ancora i valori dell’insurrezione – Maddalena si rivolge all’infernale macchina di morte, in un’interessante metonimia scenica, sussurrando «Ecco l’altare…» – altri invece fanno già i conti con la realtà corrotta e, all’inizio del secondo quadro, Bersi non esita a danzare e cantare, sprezzante e spregiudicata, sul patibolo, prendendosi così giuoco di quei principi che ormai hanno disvelato gli anfratti più oscuri della ribellione. In tal senso funzione benissimo la scena del tribunale, dove la spettacolarizzazione delle inconsistenti sentenze affresca alla perfezione l’atteggiamento quasi medioevale delle nuove istituzioni e l’ingordigia di chi vuole saziare la fame di vendetta. Ci sono invece dei coup de théâtre che, più affilati della lama della ghigliottina, scindono il giudizio perché incapaci di vincolare in profondità l’idea registica alla contingenza del testo e la soluzione finale del primo quadro ne è lampante esempio. Da un lato, l’invito della contessa a riprendere le danze quando tutti i convitati si sono ormai volatilizzati rischia di sortire un effetto piuttosto ilare. Dall’altro, l’impalatura della nobildonna (al di là di quello che sarà il racconto di Maddalena), rigorosamente a ritmo di musica, per mano della servitù liberatasi delle casacche – nell’atto di abbracciare la causa rivoluzionaria – dopo che la caduta di un dipinto (ispirato al celebre ritratto di Maria Antonietta e i suoi figli di Élisabeth Vigée Le Brun) ha rivelato l’irruzione della «folla di gente stracciata e languente», vuole farsi beffa della manierata aristocrazia e scandire l’instante in cui l’Ancien Régime, di cui i balli di corte sono alla fine il simbolo, volge alle definitiva conclusione. A onor del vero, la non perfetta quadratura del risultato pure risente della direzione spensierata: un colore e un’intensità diversa nella ripresa della gavotta avrebbe rinvigorito certamente l’argomentazione registica. Al netto poi di qualche scanzonato ghiribizzo ideato per alleggerire i brevi intermezzi folkloristici – l’Incredibile, probabilmente colpito da uveite, indossa sempre gli occhiali da sole e imbraccia un ombrello con il quale prende il volo a seguito di una folata di vento – lo spettacolo si riallaccia assolutamente ai binari della tradizione. Le scenografie dalla prospettiva sghemba di Justin Arienti hanno un ottimo impatto visivo così come i costumi di Edoardo Russo, con il quale però non si condivide la scelta di invermigliare la capigliatura di Maddalena giacché l’Hernandez è bionda (come il libretto vuole e rammenta, ma non sarà certamente il colore dei capelli a mortificare la drammaturgia!).

Lei, la magnifica Odabella dell’inaugurazione scaligera che proprio il Municipale di Piacenza ha custodito e quindi consegnato al firmamento della lirica grazie alla risonanza conquistata con l’indimenticabile Gioconda dello scorso anno, è l’elemento di traino di una compagnia invero ben assortita. La vocalità prorompente, l’opulenza di armonici e la qualità dello smalto che impreziosiscono il canto, sempre vibrante e volitivo, lasciano subito presagire il temperamento della donna in cui la ragazzina viziatella e frivola del primo quadro evolverà. Se l’attesissima – a giudicare dagli applausi a scena aperta – «La mamma morta» si limita a confermare lo splendore di uno strumento spavaldo per la luminosità con cui svetta in acuto, il primo duetto con Chénier corrobora il magnetismo dell’interprete: la morbidezza con cui Saioa Hernandez invoca protezione o l’evanescenza del sospiro d’amore («Ah! Ora soave») non solo esaltano la capacità di piegare la voce al toccante disegno musicale, ma rivelano il personaggio in tutta la sua fragile essenza.

Accanto a lei non sfigurano i due protagonisti maschili. Martin Muehle, acclamatissimo, ha squillo, volume e fiato da vendere: il fraseggio è eroico, degno del più agguerrito Cavaradossi, anche se, a differenza dell’eroe pucciniano, Chénier è più incline al dire che al fare. In quanto voce del poeta e del letterato, Muehle sale spesso in cattedra con tono oratoriale così le due celebri arie, dalla scrittura impervia, sono risolte puntando sul canto spiegato e perentorio. Claudio Sgura, Gérard, con un’accentazione mutevole e variegata, ben supportata da una vocalità solida, da un timbro brunito e un’emissione affidabile, insegue ad arte la parabola involutiva della rivoluzione. All’ardimentoso monologo di sortita si contrappone infatti la disillusione di «Nemico della patria?», proferita con la straziante mestizia. E il fraseggio allucinato della scena successiva, quando Gerard s’infiamma d’ardore lombare, fa di questa incontenibile passione l’ultima spiaggia per un uomo a cui non rimane più nulla.

Valido il comprimariato: Nozomi Kato (Bersi) ha un timbro suadente e una tenuta scenica rassicurante; Stefano Marchisio (Roucher) non passa inosservato e brilla per la nobiltà della voce e l’istrionico mordente; dell’Incredibile di Alfonso Zambuto e del Mathieu di Fellipe Oliveira si loda la sapida carica attoriale; commovente la vecchia Madelon di Antonella Colaianni. Completano correttamente il cast Alex Marini (Fléville/Tinville), Roberto Carli (L’Abate), Stefano Cescatti (Schmidt), Luca Marcheselli (Il maestro di casa/ Dumas). Ottima la prova del Coro Lirico Terre Verdiane istruito dal maestro Stefano Colò.

Sebbene si riscontri qualche eccesso ipertrofico e una tenuta periclitante in alcuni passaggi, la concertazione di Aldo Sisillo, al timone dell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini, è funzionale alla riuscita dello spettacolo. Il colore è vivido, l’espressione drammatica c’è, ma ciò comunque non basta a costruire il dramma: manca a volte la consequenzialità del discorso, lo slancio, la forbitezza del lessico.

Il sincero entusiasmo di un Municipale gremito accoglie tutti gli artisti, con punte di incontenibile apprezzamento per il trio di protagonisti.

foto Rolando Paolo Guerzoni


 

 

 
 
 

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