L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’arte del riciclo

 di Giuseppe Guggino

Felicissima realizzazione musicale quella della Favorite donizettiana al Massimo di Palermo, nella quale brilla John Osborn al fianco di Sonia Ganassi in uno dei suoi cavalli di battaglia. Comune denominatore dei due cast radunati per queste recite, oltre alla buona direzione di Francesco Lanzillotta, anche due notevoli baritoni per Alphonse, nella cornice purtroppo impari di un nuovo allestimento dall’oleografico sapore stantio.

Palermo, 24 febbraio e 2 marzo 2019 - Nell’eterogeneità compositiva più totale ciò che stupisce ne La Favorite è l’eccezionale coerenza musicale che la scrittura donizettiana riesce a trovare; eppure la musica espressamente composta per questo grand opéra è davvero molto poca e potrebbe ridursi ai momenti solistici per Alfonso XI di Castiglia, a quelli per la sua favorita Léonor (o Leonora de Guzman, secondo la storia) e un divertissement per il secondo atto. Tutto il resto deriva con pochi adattamenti da musica già compiutamente pensata, in qualche caso anche sei anni prima del battesimo all’Opéra di Parigi il 2 dicembre 1840. È il caso del coro femminile con Ines «Doux zéphir» e della stretta del terzo atto, che derivano di peso da quella Maria Stuarda vietata a Napoli nel 1834 dalla censura e poi messa in scena a Milano con la Malibran in una sfortunata edizione che segnò l’oblio dell’opera (almeno fino alla seconda metà del ‘900); da qui la possibilità di riciclarne alcuni numeri in un lavoro semiserio, Adelaide, progettato per Napoli e lasciato incompiuto, ma riadattato come L’Ange de Nisida per il parigino Théâtre de la Renaissance, soccombente in bancarotta a partitura ultimata, rimasta ineseguita (di cui si attende a giorni la pubblicazione per l’etichetta Opera Rara della prima incisione assoluta, secondo una ricostruzione recentemente compiuta sulle fonti).

Se Donizetti padroneggiava gli strumenti dell’artigianato compositivo al punto da riuscire a cavare un capolavoro da un riciclo, non al pari si destreggia nella medesima arte il Teatro Massimo di Palermo che, per confezionare un nuovo allestimento, si rifà allo storico Ernani di Beppe de Tomasi e Francesco Zito degli anni ’90, senza però eguagliare il fasto e lo spirito in un certo senso filologico dell’arte scenica che colà si rintracciava. Non basta, infatti, mutuare qualche costume, il sipario rosso, le colonne, un paio di fondali se la mano registica di Allex Aguilera e le luci di Caetano Vilela rasentano l’inerzia più totale: poco o nulla di questo spettacolo pare destinato a rimanere impresso nella memoria. Per fortuna la parte musicale, a partire dai due cast imbastiti, riscatta ampiamente l’esito generale, fino a fare di queste recite quanto di più convincente portato in scena al Massimo palermitano negli ultimi anni.

Merito innanzi tutto di Orchestra, Coro ed elementi del Corpo di Ballo (impegnati nel secondo atto nelle garbate coreografie di Carmen Marcuccio) al meglio delle proprie possibilità e certamente capaci di sostenere l’impegnativo cimento con il genere del grand opéra. Si ritrova in buca anche un Francesco Lanzillotta, notevolmente cresciuto rispetto ad un concerto semiscenico donizettiano di qualche anno addietro, che stavolta sa cavare dagli archi un suono morbido e consapevolmente usa la componente scintillante della scrittura donizettiana per gli ottoni, ottenendo impasti timbrici di grande impatto teatrale.

E per teatralità non difetta sicuramente la vocalità di John Osborn che nella parte di Fernand fraseggia, sfuma, rinforza, smorza, punta con stupefacente facilità, dimostrando di avere al giorno d’oggi ben pochi contendenti in questo tipo di repertorio, a fronte di una vocalità corredata da cotanto armamentario tecnico ed espressivo. Anche Giorgio Misseri in seconda compagnia si cimenta con un timbro di buone risorse e apprezzabili intenzioni, purtroppo parzialmente realizzate per via di una pesante indisposizione annunciata all’inizio della recita, pur portata a termine.

Sonia Ganassi ritorna dopo molti anni a Léonor, parteo molto praticata agli inizi di carriera e che si conferma ancora terreno d’elezione, nonostante l’attuale repertorio sembri orientato verso altre direzioni; si percepisce una grande attenzione nella gestione del legato, non già l’impressionante e sfacciata facilità del collega americano suo contraltare, ma alla fine il personaggio riesce ora fiero, ora sofferto, come un tempo. In seconda compagnia, invece, la consapevolezza stilistica di Raehann Bryce-Davis risulta meno apprezzabile, pur in un torrente vocalmente opulento, amministrato tutto sommato bene, almeno fino all’ultimo atto, dove i segni di stanchezza cominciano a farsi più pericolosi.

Lussuosa la rimanente parte della distribuzione che, oltre alla notevole Ines di Clara Polito e allo spigoloso Don Gaspar di Blagoj Nacoski, propone solisti di livello non impari per Alphonse IX e Balthazar. Nel primo caso Mattia Olivieri e Simone Piazzola sembrano gareggiare a distanza in bravura dividendosi le recite; e sarebbe davvero difficile indicare una preferenza per l’uno piuttosto che per l’altro, giacché entrambi riescono nel canto a mezza voce, non senza signorilità nel porgere del baritono vendicativo sì, pur non immemore della propria regalità. Notevoli anche le prove di Marko Mimica e Riccardo Fassi, il secondo forse ancora più interessante sotto il profilo dell’autorevolezza vocale mentre specularmente, in scena, il primo riesce a vestire i panni del legato papale con maggiore ieraticità.

Successo convinto alla ribalta per tutti gli artefici dello spettacolo, nonostante i quattro atti proposti con un solo intervallo. Che non è poco.

foto Rosellina Garbo e Franco Lannino


 

 

 
 
 

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