L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Passaggio a Siviglia

 di Roberta Pedrotti

Tradizionale ed eterno, Il barbiere di Siviglia torna al Regio di Parma con un cast vocale valido in cui esperienze diverse s'incrociano nel capolavoro rossiniano come in un passaggio imprescindibile, icona stessa dell'opera buffa.

PARMA, 29 marzo 2019 - Come la Gioconda, come il Partenone, come l'Amleto, Il barbiere di Siviglia deve fare ogni giorno i conti con se stesso, sostenere con la forza della propria perfezione il fardello di una fama immensa, della trasfigurazione in icona, una e molteplice. Un successo che, per certi versi, sembra quasi una condanna, una luce troppo abbagliante, un passaggio obbligato, un eterno ritorno in cui sembra difficile poter dire qualcosa di nuovo.

Di certo non lo dice lo spettacolo di Beppe De Tomasi ripreso da Renato Bonajuto, che semplicemente dà l'idea di rifare quel che si è sempre fatto, al di là di varianti fisiologiche ma ininfluenti nel complesso. Torna, invece, nell'abitudine, forte della perfezione teatrale dell'opera, forte dell'efficacia espressiva dei coloratissimi costumi di Artemio Cabassi e della bella scenografia – come una grande voliera scomposta d'arabeschi e vetrate – di Poppi Ranchetti. E torna nell'esperienza più che consolidata di Mario Cassi, il Figaro per eccellenza degli ultimi anni, uno dei più assidui interpreti del factotum da Pesaro con Alberto Zedda all'Arena di Verona fra i giardini fatati di Hugo de Ana. Inutile dire che il baritono aretino conosce ogni piega del personaggio, lo vive con simpatia ma anche con la moderna consapevolezza di chi si è formato in tempi di consolidata Rossini Renaissance e ha studiato con precisione nota per nota. Adesso, però, si sente anche che la voce di Cassi sta trovando casa in un altro repertorio, più romantico e meno brillante: Figaro continua a tornare, ma l'orizzonte è cambiato.

Allo stesso modo torna Rossini, e arriva Almaviva (debutto italiano dopo l'esordio nella parte a Bejing il mese scorso) per Xabier Anduaga, che giustamente a ventitré anni si fa le ossa nel belcanto e non manca all'appuntamento irrinunciabile con il Barbiere. Formarsi in questo repertorio non significa sottovalutarlo, nel caso di Anduaga già allievo a Pesaro di Alberto Zedda, ma coltivare con saggezza uno strumento prezioso imparando a non forzare mai e a mantenerlo duttile e pronto a ogni esigenza musicale, senza contare l'impegno sul palcoscenico in una commedia come questa. Talora il personaggio risulta ancora un po' acerbo, talaltra l'accento è azzeccatissimo (il sorriso sarcastico di sufficienza per “In arresto? Io? Fermi olà!”), la voce si conferma di qualità superiore, seppur di natura più lirica che virtuosistica, e qualche cautela è resa ben comprensibile da una bacchetta, quella di Alessandro d'Agostini, che non si può dire infonda sicurezza al palcoscenico. Senza lesinare sui tagli, la sua concertazione, infatti, procede senza brillare per spirito e fantasia, con qualche scansione appesantita e non troppo precisa, così, benché la qualità dell'orchestra dell'Emilia Romagna Arturo Toscanini e del coro del Regio restino alte, l'insieme non si può dire che spicchi il volo. Ciò nonostante Il barbiere resta, intangibile meccanismo perfetto, e si apprezza la solidità musicale del Don Bartolo di Simone Del Savio, incisivo, timbrato e soprattutto assai persuasivo nel tratteggiare – com'è giusto – un tutore più bieco che comico. Del pari Roberto Tagliavini ha buon gioco nel ritagliarsi un successo personale con un Don Basilio assai ben cantato e interpretato con esemplare chiarezza. Lorenzo Barbieri, Fiorello, e Giovanni Bellavia, istrionico Ufficiale, completano il versante maschile della locandina.

Sul fronte femminile, la defezione dell'indisposta Chiara Amarù riporta alla ribalta la Rosina del cast alternativo Carol Garcia che, com'è comprensibile, dovendo affrontare due recite in meno di ventiquattr'ore si muove con una certa prudenza, che tuttavia non impedisce di apprezzare le sue buone qualità di mezzocontralto agile e brunito. Dal canto suo, Eleonora Bellocci, anagraficamente agli antipodi del suo personaggio, dimostra come la “vecchiaia maledetta” di Berta si possa rendere con l'accento, con staccati puntuti più che con il timbro usurato di altre meno fresche colleghe.

Il pubblico parmigiano festeggia soddisfatto e acclama gli interpreti. Il ritorno a Siviglia rassicura e appaga.

foto Roberto Ricci


 

 

 
 
 

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