L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Molto rumore per Butterfly

 di  Luigi Raso

Si ridimensiona fortemente, alla prova dei fatti, lo "scandalo annunciato" per la nuova produzione di Madama Butterfly al San Carlo. Senza troppe sorprese, lo spettacolo merita un buon successo nonostante la concertazione appesantita di Gabriele Ferro.

L’incontro tra il più “cinematografico” degli operisti italiani e un cineasta di successo, profondo e raffinato, è sicuramente tra quelli che destano curiosità e aspettative.

Giacomo Puccini nel proprio teatro musicale “inquadra” musicalmente oggetti d’uso quotidiano (la cuffietta di Mimì, il tabarro di Michele, le carte da poker di Minnie, gli ottoké e l’obi, solo per restare in tema di Madama Butterfly), descrive scene con taglio cinematografico (si pensi a La fanciulla del West, un western ante litteram o alle atmosfere de Il tabarro anticipatrici del naturalismo cinematografico di Jean Renoir): è, dunque, pressoché naturale che il compositore lucchese abbia fornito spunti e occasioni di riflessione per Ferzan Ozpetek, regista che non ha bisogno di presentazioni e che è attualmente al terzo cimento con l’opera lirica, il secondo al San Carlo, dopo la La traviata inaugurale della stagione 2012 - 2013.

La sua rilettura dell’opera più amata da Puccini stesso era molto attesa; hanno fatto discutere, prima ancora di andare in scena, una scena di sesso realistica in chiusura del meraviglioso duetto tra Pinkerton e Cio Cio San e una - in realtà molto recondita e non immediatamente individuabile - passione amorosa di Suzuki verso la sua signora.

Il risultato finale, al netto degli esagerazioni dei "si vedrà… ci sarà…", è interessante, benché le anticipazioni avevano fatto intuire uno spettacolo maggiormente innovativo e più analitico.

La Madama Butterfly vista Ozpetek è invece nel solco della tradizione, con l’inserimento -già sperimentato in Traviata- di una breve e intensa sequenza cinematografica durante il coro a bocca chiusa.

Il dramma della mousmé è posdatato negli anni ’50 del ‘900, post distruzione nucleare di Nagasaki. Tra la ricostruzione, priva di descrittivismo, di un villaggio di pescatori nel primo atto e ambienti claustrofobici e scarni, le scene di Sergio Tramonti sono dominate da un mare in tempesta, plumbeo e con onde minacciose, che fa da sfondo al dramma.

Al centro di un unico impianto scenico si svolge l’azione: l’amplesso della prima notte di nozze, la lettura della lettera di Pinkerton, il letto nel quale Butterfly e il figlioletto attendono l’arrivo del tenente statunitense, e, infine, l’harakiri di Cio Cio San. Anche gli oggetti di Butterfly sono inquadrati e centrati dalla regia come dalla musica.

Goro, il subdolo nakodo, è una chiara evocazione di Ozpetek al mondo femminielli napoletani (da non tradurre e confondere con il termine transessuale), ancestrale retaggio culturale, ancora presente nella “sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia (….) la sola città del mondo che non è affondata nell'immane naufragio della civiltà antica”, secondo la icastica e, per certi aspetti, ancora attuale definizione di Curzio Malaparte.

Connotare l’ambientazione giapponese e collocarla negli anni ‘50 è compito dei bei e raffinati costumi di Alessandro Lai, il quale avvolge di una vistosa veste rossa Cio Cio San e le sue sosia che si aggirano inquietanti nella platea durante i primi minuti dell’opera.

Meno riconoscibile risulta l’apporto delle luci di Pasquale Mari, data la pressoché generale atmosfera grigia che avvolge lo spettacolo.

L’Ozpetek cineasta sa come colmare il vuoto scenico del “coro a bocca chiusa” che chiude l’atto II: il breve videoritratto di Butterfly - montato da Luciano Romano, artista della fotografia dalla rara raffinatezza e da anni autore di meravigliose fotografie di scena al San Carlo - è un primo piano espressivo di Butterfly, la quale lentamente procede verso un mare dall’aspetto invernale, leggermente increspato e nel quale, al termine del coro, la sua immagine sparisce.

Sul versante musicale la direzione di Gabriele Ferro rinuncia a scavare nelle pieghe della partitura pucciniana alla ricerca delle squisitezza armoniche e strumentali, optando per una lettura tendenzialmente corretta, ma algida. Qualche calo di tensione emotiva si avverte, probabilmente in ragione della scelta di tempi, soprattutto per il primo atto, improntati a una costante lentezza.

Troppo poco plastico il senso dell’attesa in musica che dovrebbe avvertirsi nelle battute orchestrali che anticipano lo stupore di Suzuki che esclama "Il cannone del porto! Una nave da guerra…", così come il successivo duetto "Scuoti quella fronda di ciliegio".

Una lettura, quella di Gabriele Ferro, dal colore sonoro prevalentemente cinereo, e attraverso la quale si vedono poche scintille.

L’orchestra è abbastanza precisa, ma non in una delle sua serate migliori alle quali da tempo ha abituato il pubblico sancarliano; l’equilibrio dei pesi sonori tra palcoscenico e golfo mistico appare problematico, risultando i cantanti spesso “coperti” dalla orchestrazione pucciniana.

In linea con la resa strumentale è il coro; nell’entrata di Butterfly ("Quanto cielo! Quanto mar!") le sonorità del coro femminile appaiono eccessivamente “pesanti”. La prestazione complessiva della compagine corale, diretta da Gea Garatti Ansini, migliora nel corso dell’opera, pur registrando un passo indietro per precisione e qualità sonora rispetto alle ultime produzioni.

Di buon livello è la compagnia di canto, che schiera nel ruolo eponimo la russa Evgenia Muraveva la quale canta sicuramente con voce tecnicamente ben organizzata, ha timbro molto suggestivo, registro medio abbastanza corposo, ma acuti alquanto mingherlini e non troppo precisi. Tuttavia alla Muraveva sembra mancare il senso tragico di Butterfly: non si avverte nella sua interpretazione quel vorticoso passaggio tra speranza, felicità, amore, attesa, delusione che deve necessariamente connotare la più pucciniana delle eroine del compositore lucchese, colei che paga con il suicidio la “colpa” di aver amato, di aver rinnegato con convinzione il proprio mondo.

Ad eccezione del volutamente rozzo e semplicistico "Amore o grillo" e del posticcio "Addio, fiorito asil",quella di Pinkerton è una parte vocale poco articolata per evidenziare le qualità di Saimir Pirgu, il quale sfoggia una voce in piena evoluzione, dal timbro sempre più scuro, timbrata, naturalmente corposa nel registro medio e con acuti squillanti e molto proiettati. Il suo è un Pinkerton perentorio nella sua bassezza morale, ma che sa essere dolce innamorato in "Bimba dagli occhi pieni di malia", cantato alleggerendo l’emissione, per poi diventare fremente durante l’amplesso di "È notte serena… Ti serro palpitante", durante il quale Pirgu e Muraveva denudano, rispettivamente, torso e seno.

La Suzuki di Raffaella Lupinacci, pur nella brevità della parte, denota una voce corposa, con registro basso messo ben a fuoco, timbro affascinante e intelligenza musicale.

Lo Sharpless di Giovanni Meoni ha voce dal timbro ordinario, linea di canto corretta, austera figura scenica, così come gli impone il ruolo di Console degli Stati Uniti.

Luca Casalin ha colore appropriato per dar voce al mellifluo sensale Goro.

Nel complesso accettabili nei ruoli secondari lo zio Bonzo di Ildo Song, benché dall’ampiezza vocale troppo poco tonante e persuasiva, il petulante Principe Yamadori di Niccolò Ceriani, la Kate Pinkerton dall’elegante figura di Rossella Locatelli, il Commissario Imperiale di Enrico Di Geronimo e l’Ufficiale del registro di Antonio De Lisio.

Nei panni di "Dolore", il figlio di Butterfly e Pinkerton, è perfetto nella recitazione il bel bambino dai capelli “d’oro schietti” di Lorenzo Mattia Moreschi: alle uscite raccoglie un meritatissimo e incoraggiante successo personale!

Al termine dell’opera, Saimir Pirgu, entrando dall’ingresso principale della platea, esclama lo straziante e sonoro "Butterfly! Butterfly! Butterfly!" (che letteralmente fa balzare dalla poltrona una signora del pubblico!); sugli accordi finali piovono dalla sala gremitissima fragorosi applausi, che si ripetono all’uscita dei protagonisti dello spettacolo.

foto Luciano Romano


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