La bella Elena seduce Amburgo 

Ripresa ad Amburgo La belle Hélène di Jacques Offebach nella produzione di Renaud&Doucet per il bicentenario del compositore

La belle Hélène 
La belle Hélène 
Recensione
classica
Amburgo, Staatsoper Hamburg (Opernhaus)
La belle Hélène 
14 Maggio 2019 - 24 Maggio 2019

La Germania non dimentica il duecentesimo compleanno del proprio figlio Jakob Offenbach, nato nel 1819 nell’allora enclave prussiana di Colonia. E in attesa che la sua città natale lo festeggi con una nuova produzione della Grande Duchesse de Gérolstein annunciata in giugno, l’Opera di Stato di Amburgo riprende per alcune repliche la propria fortunata produzione de La belle Hélène del 2014. 

Era già diventato Jacques da parecchi anni quando nel 1864 arriva con l’Hélène forse il più grande dei successi, che marca l’inizio dei fortunati anni dell’Offenbachiade. Come già l’Orphée aux Enfers, anche questa operetta in tre atti si fa beffe dei miti classici, sempre piuttosto popolari fra intellettuali e artisti francesi, e li saccheggia per satireggiare sui molti vizi e le scarse virtù morali del Secondo Impero ma anche sulle mode e i modi musicali del tempo, che Offenbach dà mostra di conoscere bene nel suo rovesciamento di senso dall’irresistibile effetto comico, molto vicino in questo allo spirito dell’umorismo rossiniano. Popolare in Francia ma popolare anche nei paesi di lingua tedesca, La belle Hélène arriva a Vienna già nel 1865 con protagonista Marie Geistinger, la prima Rosalinde nel Pipistrello pochi anni dopo, ed è subito scandalo per lo spogliarello integrale nel duetto con Paride. Come in Francia è da sempre un affare da primedonne: anche la somma straussiana Maria Jeritza e, più di recente, un’altra grande Marescialla come Felicity Lott, nella memorabile produzione dello Châtelet del 2000, vollero seguire le orme di Hortense Schneider, la musa che incarnò l’ideale offenbachiano di virtuosismo vocale e capacità recitativa. 

Con l’inevitabile distanza del tempo, lo spessore satirica dell’originale si è progressivamente assottigliato e, a parte qualche tentativo di inserire gag legate all’attualità del momento e del luogo, la tendenza è piuttosto quella di spingere piuttosto sul divertissement puro. È il caso anche della produzione amburghese, data nell’originale francese, firmata dalla coppia Renaud Doucet e André Barbe: messa da parte l’Argolide micenea, è a bordo del transatlantico Jupiter che si trasferisce l’allegra comitiva degli Atridi con annessi e connessi. L’ambientazione marinaresca – che spiritosamente sostituisce il segnale che chiama il pubblico in sala con la sirena della Jupiter – e le coreografie strizzano l’occhio alla commedia musicale americana, come fa anche il profluvio di costumi dai colori squillanti anni ’60 con spiritosi innesti classicheggianti (nel nonsense generale spunta anche un plotoncino di modrni euzoni). Il ritmo è serrato (ma il mordente un po’ svanisce verso la fine) e il gusto decisamente camp ma non tradisce il gioioso libertinaggio che ispira l’azione di questa opéra bouffe

Il ritmo serrato è anche la cifra distintiva del passo impresso dal direttore Nathan Brock alla folta compagine in scena. A tratti il Coro dell’Opera di Stato di Amburgo, che non brilla per precisione, stenta a stargli dietro e qualche interprete segna talora il passo ma si capisce che lo scopo è soprattutto far divertire anche a costo di qualche approssimazione sul piano musicale. La primadonna Kate Aldrich, comunque, fa il suo mestiere e lo fa al meglio, regalando anche una lunga e folle cadenza, che è un virtuosistico catalogo di citazioni operatiche, prima di volare a Citera con l’amante Paride. Questi, pastore fricchettone figlio dei fiori, è Oleksiy Palchykov, che se la cava bene pur fra qualche difficoltà in un ruolo che Offenbach dissemina di sfide tecniche per l’interprete (ci sta pure lo jödel per gradire). I due Atridi sono Peter Galliard, un Menelao da caricatura, più interessato alle attenzioni del muscoloso attendente che alla moglie fedifraga, e Viktor Rud, tracotante Agamennone di buoni mezzi vocali. Cameo di lusso secondo una consolidata tradizione operettistica, il controtenore Max Emanuel Cencic presta voce e disinvoltura scenica a un Oreste dandy ancora spensierato. Gli altri funzionano bene nell’insieme e soprattutto divertono molto il pubblico amburghese, che, sedotto dalla simpatia della Belle Hélène, ripaga con risate e calorosi applausi questa gradita ripresa. 


 

 

 

 

 

 

 

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