Milano, Teatro alla Scala: “Die töte Stadt”

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2018/19
“DIE TÖTE STADT”
Opera in tre quadri su libretto di Paul Schott (Julius Korngold) dal romanzo “Bruges-la-morte” di Georges Rodenbach

Musica di Erich Wolfgang Korngold
Paul KLAUS FLORIAN VOGT

Marietta/L’apparizione di Maria ASMIK GRIGORIAN
Frank/Fritz, il Pierrot MARKUS WERBA
Brigitta CRISTINA DAMIAN
Il conte Albert/Gaston SASCHA EMANUEL KRAMER
Julietta MARIKA SPADAFINO
Lucienne DARIA CHERNIY
Victorin SERGEI ABABKIN
Una voce del quintetto HWAN AN
Orchestra e coro del Teatro alla Scala, coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scola
Direttore Alan Gilbert
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Graham Vick
Scene e costumi Stuart Nunn
Luci Giuseppe di Iorio
Coreografia Ron Howell
Milano, 31 maggio 2019
Arriva per la prima volta alla Scala Die töte Stadt, l’opera composta nel 1920 da Erich Wolfgang Korngold che rappresenta una delle creazioni più significative di quella vivacissima stagione della musica austro-tedesca che fra la fine del I° conflitto mondiale e l’affermazione del nazismo vide, all’ombra dei contrapposti titani, Strauss e Schömberg, una straordinaria fioritura di talenti. In questo contesto Korngold appariva come un predestinato; fu, infatti, un fanciullo prodigio, cresciuto in un ambiente impregnato di musica – il padre Julius era l’onnipotente critico musicale della “Neue Freie Presse”, ascetico paladino della tradizione e arbitro assoluto della vita musicale viennese –, allievo di Zemlinsky, protégé di Mahler e ammirato da Puccini. I casi della storia si sarebbero in seguito abbattuti su di lui; in particolar modo le origini ebraiche lo avrebbero costretto all’esilio negli Stati Uniti dove a Hollywood non solo vinse due premi Oscar ma creò insieme ad altri profughi mittel-europei quel linguaggio musicale proprio del cinema americano i cui estremi esiti sono tutt’oggi attivi. Nonostante i successi, l’interruzione dei rapporti regolari con il mondo musicale europeo ha isolato Korngold che al suo ritorno in Europa ha trovato un nuovo ostracismo, quello delle avanguardie dominanti. Le opere composte negli anni venti restano però fra le più paradigmatiche del tempo. Tratta dal funereo romanzo di “Bruges-la-morte” di Rodenbach, la vicenda narra di Paul, oppresso dal ricordo della moglie deceduta e dai sensi di colpa dovuti alla bigotta morale cittadina a tal punto da aver trasformato la propria casa in una sorta di museo della defunta. L’incontro con la ballerina Marietta, sosia della moglie sembra riportare Paul alla vita ma in un momento di delirio dovuto al rifiuto di Marietta di identificarsi con Maria la uccide salvo poi rendersi conto di essere stato tutto un incubo cui segue la scelta di abbandonare la città morta alla ricerca forse di una rinascita. Un grumo irrisolto di pulsioni psicanalitiche immerse in un universo tardo-romantico impregnato di morte su cui si allungano ombre espressioniste molto prossime a tanto cinema coevo, il tutto reso con una scrittura musicale ricchissima e sontuosa, di seducente abbandono melodico e di raffinatissima concezione. Si tratta di un’opera di straordinario fascino e di grande importanza storica che finalmente giunge sul palcoscenico scaligero. Graham Vick è sicuramente regista di mestiere anche se spesso vittima dei suoi stessi furori ideologici. In questo caso agisce con minor furia iconoclasta e si concentra sul raccontare la già non chiarissima vicenda con mano ferma e alto mestiere. Un Vick essenziale che imposta il lavoro su un impianto scenico minimale costituito da un grande spazio vuoto, definiti da tendaggi di sapore funerario e da pochi arredi di gusto Bauhaus. La vicenda è, inoltre, sostanzialmente trasposta agli anni trenta pur con qualche voluto e caricato anacronismo come la televisione che sostituisce il ritratto di Maria e che permette soluzioni più dinamiche e surrealiste nel duetto finale del I atto fra Paul e la voce della defunta – grandi schermi che diventano proiezione degli incubi e delle ossessioni del protagonista fra occhi voyeuristici su Marietta e immagini di un cattolicesimo repressivo e bigotto. La recitazione è molto curata e naturalistica e sfrutta la forte personalità scenica soprattutto della protagonista. Negli incubi di Paul si alternano citazioni d’epoca – come l’allucinato balletto erotico da cabaret berlinese che compare alla fine del I atto – a premonizioni della futura vicenda di Korngold: l’emergere del nazismo e l’accenno al suo futuro del cinema a cui sembrano alludere i proiettori. A volte Vick si fa prendere la mano: la festa delle maschere è un’ orgia che sembra uscita da “Il portiere di notte”, forse eccessiva nelle sue troppo scoperte allusioni sessuali mentre durante la processione irrompe un altare-teschio più vicino all’estetica messicana del Dia de los muertos che a una processione fiamminga, ma si tratta di momenti in uno spettacolo per il resto sobriamente essenziale. Il mondo esterno espunto da Vick rientra di forza nella direzione di Alan Gilbert che con i suoi colori e le sue ombre rende palpabili le cupe strade medioevali di “Bruges la morta” che proiettano le loro ombre spettrali sul nero groviglio dei canali. Il direttore americano riesce in modo encomiabile a far convivere un rigoroso senso strutturale e architettonico della partitura con una capacità di far emergere tutto il senso di decadente erotismo, di rutilante disfacimento che è nei cromatismi di Korngold. Nella sua lettura appare chiarissimo il sistema dei temi conduttori ma altrettanto il processo di corrosione cui sono progressivamente sottoposti, come stravolti dalle ossessioni di Paul. Ottima la scelta dei tempi e delle agogiche – quanta dolcezza nel “Lied del liuto”, lento sfumato, carezzevole così come quasi brechitiano è lo straniamento più meccanico che umano della scena delle maschere finché l’umanità, carica di nostalgia e rimpianto, ritorna protagonista nella cesellata lettura del Lied di Pierrot. Altrettanto curati i colori orchestrali, gli impasti timbrici, l’uso in senso espressivo di determinate sonorità come nella grande processione del III atto dove gli strumenti che definiscono in origine l’ambiente cattolico – campane, organo, armonium – sembrano deformarsi dando alla scena il carattere di un incubo mefistofelico. Una direzione perfettamente efficace sia sul piano teatrale che su quello prettamente musicale. Splendida protagonista Asmik Grigorian. La parte di Maria/Marietta è di rara scomodità, con una tessitura spesso molto ampia e alquanto impegnativa e un canto chiamato a dipanarsi su un tessuto orchestrale densissimo. La Grigorian regge con sicurezza la tessitura e grazie a una proiezione ammirevole supera di slancio l’orchestra pur mantenendo sempre una tipologia vocale giustamente più lirica che drammatica. Se ragguardevole è la musicista ancor superiore è l’interprete. Un fraseggio vario, ricco, curatissimo, un accento sempre cangiante trasmette un personaggio pieno di slancio, di vita, di sensualità – quanta energia nel Lied della danza! – un essere vivo e palpitante totalmente in contrasto con l’idea agiografica che Paul si è costruito della defunta moglie che anche nei momenti di ripensamento lirico – infinita è la dolcezza nel Lied del liuto – mantiene sempre un senso di vita che non potrebbe essere più coinvolgente. La presenza scenica è strepitosa, di un magnetismo irresistibile unito a un fascino e a una carica di sensualità invero non comuni. Meno entusiasmante ma nell’insieme più che corretto il Paul di Klaus Florian Vogt. Voce particolare, quasi spiazzante nell’unire una prestanza da Heldentenorer a una timbrica da tenore di grazia. Canta con grandissima proprietà – splendidi la morbidezza del settore centrale, il controllo del fiato, la pulizia delle filature e delle mezze voci – e si difende nel settore acuto dove si percepisce un senso di fatica – che si fa crescente nel corso dei singoli atti – e di mancanza di autentico squillo riuscendo comunque a superare tutte le difficoltà di una parte particolarmente impervia con sicurezza e buona professionalità. Sul piano espressivo del suo Paul emergono soprattutto gli aspetti più patetici, il senso di una sofferta solitudine piuttosto che quelli dell’esaltazione e del senso di colpa. Markus Werba sfoggia la splendida voce e l’impeccabile senso dello stile che ben gli conosciamo anche in due ruoli apparentemente minori risultando a proprio agio tanto nel canto di conversazione quasi pucciniano di Frank tanto nell’estenuato lirismo del Lied di Pierrot. Cristina Damian è una Brigitta ben cantata e dal suggestivo timbro morbido e fondo. Molto bravi i giovani dell’Accademia scaligera alle prese con i vari membri della compagnia di Marietta. Buona presenza di pubblico specie considerando la non particolare popolarità del titolo e successo caloroso per tutti gli interpreti con autentiche ovazioni per la Grigorian. Foto Brescia & Amisano