97° Arena di Verona Opera Festival 2019: “La Traviata”

97°Arena di Verona, Opera Festival 2019
LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave

Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry  ALEKXANDRA KURZAK

Alfredo Germont  PAVEL PETROV
Giorgio Germont  LEO NUCCI
Fa Bevoix ALESSANDRA VOLPE
Annina DANIELA MAZZUCATO
Gastone di Letoriéres  CARLO BOSI
Barone Douphol GIANFRANCO MONTRESOR
Marchese d’Obigny  DANIEL GIULIANINI
Dottor Grenvil ROMANO DAL ZOVO
Giuseppe MAX RENÉ COSOTTI
Domestico/Commissionario  STEFANO RINALDI MILIANI
Primi ballerini PETRA CONTI, GIUSEPPE PICONE
Orchestra, coro, ballo dell’Arena di Verona
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro Vito Lombardi
Regia e scene Franco Zeffirelli
Costumi Maurizio Millenotti
Luci Paolo Mazzon
Coreografia Giuseppe Picone
Nuovo allestimento
Verona, 21 giugno 2019
A giudicare dalla piena di commenti che ha allagato il web, la coincidenza tra la prima di questa Traviata areniana e la scomparsa di Franco Zeffirelli ha trasformato un evento sensazionale in una psicosi collettiva. E’ difficile se non addirittura impossibile farsi un’idea univoca di ciò che è andato in scena all’anfiteatro scaligero nell’afosa serata del 21 giugno, alla presenza della massima carica dello Stato, o di quel che il pubblico d’Italia e di mezzo mondo ha visto in TV, essendo i suddetti commenti, dai più anonimi ai più illustri, del tutto discordanti tra loro e talvolta venati di una certa isterica tendenza all’iperbole, ora di segno positivo ora negativo. Sembra che sia destino fatale delle gesta eroiche essere magnificate e lapidate allo stesso tempo, forse per colpa dell’umana incapacità di misurarsi con ciò che valica l’ordinarietà dell’ovvio, per la qual cosa non è dato sapere nemmeno se Don Chisciotte fosse un ardito o un folle. Quel che fa impazzire di certo è la stupidità delle zuffe sulle effettive dimensioni (freudiane?) del successo di quest’operazione, che è stata obbiettivamente colossale per impresa e per pubblico raggiunto, zuffe che sono come il crepitar di sterpi in confronto al boato di un gigante che s’inabissa qual è l’Opera attualmente nel nostro Paese. Anziché discettare assurdamente se l’Arena sia un luogo adatto o meno al canto lirico, piangiamo sulla crisi dei nostri teatri, e forse, cadute le squame dagli occhi, potremo tornare a godere dei miracoli. Tornando alla disorientante varietà dei commenti su questo allestimento, essa deriva da due fatti: primo, l’ignoranza dilagante in materia di canto lirico ed opera in generale, ignoranza che si esprime sotto la forma d’una miopia di sé e dell’oggetto delle osservazioni (per intenderci, la stessa di quello che si ritrovasse sotto al colosso di Rodi ed esclamasse “Quest’affare ha i piedi troppo grandi!”). A questa, nell’epoca della democrazia social, non c’è rimedio. Secondo: che la sera del 21 giugno sono andati in scena non uno ma due spettacoli, assai diversi tra loro. Il primo era quello che si poteva godere dalle scomodissime poltroncine dell’Arena, l’altro era quello trasmesso su Rai Uno ed officiato dalla bella Antonella Clerici e dal piacione Vittorio Grigolo. Si pone ora una domanda: chi si ritrovasse come noi a dover recensire un simile fenomeno, su quale opera dovrebbe esprimersi, quella dal vivo o l’altra? La domanda è cruciale perché le critiche sarebbero diverse, tanto quanto lo sono stati i due spettacoli, e, visto il quadro, non vorremmo aggiungere ambiguità a disordine. Diremo così: abbiamo la fortuna che ogni uomo intelligente si augura, ossia di poter osservare contemporaneamente lo stesso oggetto da due punti di vista differenti; tenteremo quindi un confronto, lasciando a voi il giudizio finale. Cominciamo dall’inizio. In sede di conferenza stampa si è messo in luce come Franco Zeffirelli sia divenuto drammaturgo perfino della propria morte. In effetti, c’è del tragico e del sublime nelle ultime vicende terrene di questo immenso regista, scenografo, costumista, bozzettista e attore italiano. A trent’anni da quella Traviata in cui il maestro fiorentino volle per la prima volta la ventitreenne Cecilia Gasdia nei panni di Violetta, è la stessa Gasdia ora, divenuta sovrintendente di una delle maggiori fondazioni liriche, a volerlo come regista della Traviata, l’ultima. Quest’opera, che Zeffirelli metteva nell’egida delle sue favorite e che chiamava “fantasma e amore” della sua vita, s’è aperta sul palco dell’Arena attonita con un corteo funebre, accompagnato delle prime battute del Preludio che sono pallide come il volto di uno spettro: quello che doveva essere il ricordo del funerale della dama delle camelie è sembrato a tutti la trenodia in onore del genio scomparso. Si è definito Zeffirelli “creatore di sogni”, ed in effetti il gioco di scene, superbe per dimensioni ed arredamento, il grande sipario (lo stesso pensato per la Carmen del ’95) e un poco agitato dalle folate di vento, e quel meraviglioso cambio di scene a vista che ci ha trasportati da una serra ad un palazzo parigino, sono lampi di una mente libera e sognante, e tuttavia mai folleggiante né perversa. Ogni sogno partorito dalla mente del Maestro è come se sognasse già se stesso, se ne uscisse già materializzato nelle colonne, i tappeti, gli specchi, la frutta fresca, i veli e i taffetà delle sue dame. È come se su ogni cosa partorita da quella fervida immaginazione si fosse già depositato un velo di polvere, che la rende vera come lo sono i frutti bacati di una natura morta di Caravaggio. E’ stato anche confessato che, sebbene il concetto sia di Zeffirelli, essendo stato poi egli assente di fatto dalle prove, il risultato finale è da ascrivere agli assistenti, che hanno assunto il fardello di sognare il sogno del loro maestro. Taluni si sono lamentati del fatto che mancasse, ad esempio, quella stratificazione di tipica della regia zeffirelliana, per cui ogni personaggio è a tal punto reso partecipe della storia che ciascuno, anche nella penombra di una muta comparsa, narra qualcosa di sé. In effetti, dalle poltrone dell’Arena questo è stato ravvisabile solo in parte, mentre le riprese in telecamera ci hanno restituito una galleria ricca in quanto a volti ed espressioni. Veniamo poi alla prima scena, in cui la casa di Violetta ci appariva aperta su due livelli come un’enorme casa di bambola. L’idea ci è sembrata lì per lì poco gustosa, un gioco sofisticato di carpenteria ma nel complesso non armonioso, in particolare essendo il piano superiore basso e buio sì da far apparire le figure schiacciate oltre che esposte a pericolosa altezza. Se dal vivo la sensazione poteva essere questa, in televisione invece si è avuta la possibilità di penetrare quegli ambienti, di coglierne in sostanza l’atmosfera: il blu livido delle stanze private di Violetta Valéry, intime quanto lo schiudersi di quell’anima al misterioso e palpitante amore di Alfredo, lo sfarzo dorato della sala inferiore, preziosa negli infiniti dettagli ed illuminata magnificamente. Solo all’occhio sottile della telecamera è dato cogliere certe sfumature, come quella sopraffina del riflesso di Violetta ed Alfredo nel grande specchio della camera da letto, stretti nell’abbraccio di congedo dopo il magnifico duetto del Primo Atto, dettaglio squisitamente cinematografico. Insomma, nell’immaginazione di Zeffirelli la regia del cinema si mescola a quella del teatro, sicché il suo spettacolo si offre ad una infinità di punti d’osservazione, come un’opera di somma scultura, che andrebbe indagata tutta prima di pronunciare il principio estetico crociano mi piace/non mi piace. Veniamo invece agli interpreti: anche per ciò che li riguarda, l’impressione avuta dal vivo si discosta, forse più lievemente di quel che riguarda scene e regia, da quella ricavabile dalle riprese. Partiamo da una breve osservazione sull’acustica areniana, che così come per l’occhio, richiede un approccio diverso da quello d’un normale teatro. Come la stessa Gasdia affermava durante la diretta, in Arena il suono gira benissimo, quindi cantarvi dovrebbe essere un piacere, e tuttavia la goccia del dettaglio sonoro, così come accadeva per quello visivo, rischia costantemente di annegare nell’oceano di quelle dimensioni esagerate. Ascoltare in Arena è croce e delizia, giacché si gode di uno spettacolo e di un’acustica senza pari, e tuttavia si avverte in sordina l’esigenza di un contatto più ravvicinato con l’interprete. Quanto detto vale in particolare per l’Alfredo di Pavel Petrov, che sin dalle prime note è risultato meno potente delle altre voci in campo. Per di più, come spesso fanno i tenori, per i primi minuti di spettacolo, sembra che egli si sia tenuto guardingo al di qua di un suono concentratissimo, ai limiti del costretto, per poi sciogliersi strada facendo in una vocalità più lucente seppur esile di natura. A conti fatti, la sua performance è stata la più precisa, intonata e musicale dello spettacolo, pur non avendoci riportato fino in fondo quella passione che contraddistingue l’impulsivo Germont. Dalle riprese è emersa una recitazione lievemente ingessata oltre che un trucco così pallido da farlo sembrare un bambolotto. Il caso di questo interprete è un esempio chiaro del fatto che, pur non avendo mezzi enormi, in Arena ci si possa far sentire, a patto di avere una voce ben posizionata e timbrata (e di non fare inutili confronti con Giuseppe Di Stefano).Passiamo invece a Violetta, il cui caso è più controverso. Parlare della voce di Alekxandra Kurzak vuol dire trattare di un grande strumento, con un notevole sviluppo del registro di petto, un suono pastoso e gradevole nella zona centrale e dagli acuti abbastanza centrati. Ciò di cui ha sofferto l’interpretazione del soprano polacco è stata una certa pesantezza, che inizialmente ci ha fatto temere per la sua tenuta, la fastidiosa tendenza a crescere negli acuti e quegli accenti di stampo verista di cui ha disseminato l’ultima scena – in cui l’eroina tisica si va spegnendo, sicché certi suoni di petto sono apparsi inopportuni oltre che di cattivo gusto. In telecamera la Kurzak si rivela un’attrice appassionata e partecipe, dal volto di una severa bellezza che ben si sposa alla profondità della Valéry, donna capace di amare fino al sacrificio di sé. Preziosi e godibili più in TV che dal vivo i suoi pianissimo, momenti di sincero trasporto e autentica delicatezza.Leo Nucci, vecchia gloria italiana, è una di quelle voci che “bucano” tutto: teatro, schermo e memoria di chi lo ascolta. Il suo ingresso in scena è stato puro dramma ed il suo Germont padre la raffigurazione dell’autorità e della tradizione. Il suo timbro, ormai graniticizzato in una certa altera durezza, ha ben conferito al personaggio un che di epico, dato inedito ma tutto sommato utile a sconvolgere le sorti di un amore scandaloso e inossidabile.Gli altri interpreti hanno completato con merito il cast, con un leggero vantaggio delle voci maschili su quelle femminili: la giovane e bella Alessandra Volpe nei panni di Flora Bevoix, di cui ci è sembrato un po’ eccessivo il vibrato, la grande Daniela Mazzucato in quelli di un’Annina un tantino dimessa, Carlo Bosi, Gastone altisonante, Gianfranco Montresor, Barone Douphol dal timbro possente e dalla recitazione molto convincente. Bene poi Daniel Giulianini nei panni del Marchese d’Obigny e ottimo Romano Dal Zovo in quelli del Dottor Grenvil.Daniel Oren, ai tempi pupillo di Zeffirelli, ha lottato costantemente e visibilmente per strappare l’orchestra al proprio sogno, che in questo caso sarebbe più esatto chiamare déjà-vu: la foga con la quale richiamava il vibrato dagli archi o con cui sferzava gli ottoni sembrava dirci quanto possa essere difficile risvegliare l’anima di chi suona uno spartito ormai praticamente a memoria, e pur tuttavia quanto urga che quello spartito parli ancora e confessi il proprio testamento di bellezza. Oren ci è riuscito abbastanza bene in questa Prima, sia nella ricerca di sfumature (molto preziosi i Preludi) sia nella gestione dei Tempi (non sempre felicissima, vista la tendenza – in particolare di Violetta – a rallentare). Numerosi sono stati anche gli energici richiami di Oren verso il coro, ben preparato dal M° Vito Lombardi. A completare il sogno, i costumi splendidi del pluripremiato Maurizio Millenotti, le coreografie di Giuseppe Picone e le luci di Paolo Mazzon. Foto Ennevi per Fondazione Arena