Torre del Lago, 65° Festival Puccini 2019: “Madama Butterfly”

Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”– 65° Festival Puccini
MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in tre atti di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly (Cio-cio-san)
KARINE BABAJANYAN
Suzuki
ANNUNZIATA VESTRI
Kate Pinkerton
ALESSIA THAIS BERARDI
B. F. Pinketon
STEFAN POP
Sharpless
STEFAN IGNAT
Goro
MARCO VOLERI
Lo zio Bonzo
MANRICO SIGNORINI
Il Principe Yamadori DANIELE CAPUTO
Il Commissario Imperiale LUCA BRUNO
L’Ufficiale del Registro ALBERTO PETRICCA
La Madre SANDRA MELLACE
La Zia BEATRICE CRESTI
Yakuside FILIPPO LUNETTA
La Cugina ANNA RUSSO
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Direttore Nir Kabaretti
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Regia Stefano Mazzonis di Pralafera
Scene Jean-Guy Lecat
Costumi Fernando Ruiz
Light Design Nino Napoletano
Nuovo Allestimento in coproduzione con l’Opéra Royale de Wallonie-Liège
Torre del Lago, 12 agosto 2019
Troppe premesse andrebbero anteposte alla recensione della “Madama Butterfly” di questo Festival Pucciniano: la prima è che il primo atto è stato inficiato da alcuni scarsi rovesci che l’hanno interrotto due volte, quindi è quasi impossibile giudicare le performance dei cantanti, evidentemente infastiditi dalle condizioni climatiche – per non parlare dei professori d’orchestra; la seconda è che questa è e sarà – finché se ne conserverà memoria – la “Butterfly dell’elicottero”, ossia dell’atterraggio tramite una gru di un finto elicottero gigante sul tetto della casa di Cio-Cio-San: una delle scelte più arbitrarie e sconsiderate che io abbia mai visto in un teatro d’opera, che ha fatto sghignazzare il pubblico in un momento di tensione come l’inizio del terzo atto; lo shock è tale da allungare inquietanti ombre su tutto lo spettacolo: stupisce che un noto direttore artistico come Stefano Mazzonis di Pralafera abbia messo in atto un simile sfregio a Puccini, in produzione poi con il Festival! La regia, in generale, infatti, non sviluppa niente sul piano emotivo, introspettivo: non vede alcun uso di proiezioni o di multi dimensionalità per indicare lo scontro tra i mondi, non si allontana dal solco della tradizione se non in pochi momenti di boutade – pensiamo tra l’altro a come vengano appiattite alcune pagine splendide dell’opera, quali il duetto d’amore del primo atto e quello dei fiori del secondo, nel quale all’accorata armonia delle voci si accosta una goffa immobilità. Un’occasione persa, nonostante le scene di Jean-Guy Lecat, ad esempio, siano interessanti, forse cavalcano un po’ troppo il cliché della japonerie, ma funzionano; i costumi di Fernando Ruiz non brillano per originalità – non basta mettere dei cantanti in occhiali da sole per ottenere effetti innovativi – ma, per lo meno, sanno indicare chiaramente il periodo di ambientazione della regia, gli anni ’50. Le luci di Nino Napoletano sono efficaci e ben architettate, sanno differenziare bene spazi chiusi e spazi aperti, e non lasciano mai nell’ombra i solisti. La direzione di di Nir Kabaretti, si mostra sufficientemente pronta a tenere le fila di una serata funestata dal meteo che porta a varie difficoltà anche nel rapporto tra buca e scena, in un’atmosfera molto tesa – che lo porta a una concertazione che, ovviamente, perde in languore e morbidezza. La performance del Coro, preparato da Roberto Ardigò, nel primo atto appare corretta, ben strutturata anche scenicamente; ma il grande cavallo di battaglia di questa formazione di vocazione pucciniana è, com’è giusto, il coro a bocca chiusa, quindi non stupisce la grazia e l’intensità che conferiscono alla celebre pagina corale dell’opera. I solisti si assestano anch’essi su un alto livello musicale: certamente tra loro spicca Annunziata Vestri, che sfodera un registro centrale pieno e un’intera gamma vocale solida, ci offre una Suzuki accorata nel duetto del secondo atto, soffertissima nel terzetto del terzo, sempre fedele a un fraseggio accurato. Stefan Pop, si riconferma un Pinkerton riuscito, anche se il tenore romeno non sembra mai del tutto coinvolto (forse a causa degli improvvisi scrosci di pioggia che funestano sempre la sua parte), morde il freno della subdola natura di Pinkerton; senza dubbio l’esuberanza e il sentimento di Pop meglio si accorda al Rodolfo di Bohème. Un ruolo più negativo come questo necessita, probabilmente, di una maggiore profondità interpretativa. Da un punto di vista puramente canoro, Pop si riconferma cantate solido, dai colori morbidi e dagli slanci sicuri, che gli garantiscono il favore del pubblico. Buona prova di sé, specialmente nel secondo e nel terzo atto, dà pure lo Sharpless di Stefan Ignat: il fraseggio evolve giustamente dal compassato al commosso, la linea di canto è complessivamente adeguata seppur con qualche disomogeneità. Centrato e ben in parte si è rivelato anche Daniele Caputo (Yamadori), mentre evidentemente Marco Voleri non era in serata, e il suo Goro ci è parso al di sotto del suo valido standard vocale. Corretti gli interventi di Manrico Signorini (Lo zio bonzo) e di Alessia Thais Berardi (Kate Pinkerton). Cast completato da Luca Bruno (Commissario Imperiale), Alberto Petricca (ufficiale del registro), Sandra Mellace (la madre), Beatrice Cresti (la cugina), Filippo Lunetta (Yakusidè) e Anna Russo (la cugina). Infine  Karine Babajanyan, una Butterfly tutto sommato corretta: nei centri e nella zona medioacuta possiamo godere di una vocalità ricca di armonici e dell’elegante fraseggio, mentre il registro acuto mostra qualche asperità. La celebre “Un bel dì” sembra cantata senza abbandono e con una gamma poco varia anche nel mettere in luce, almeno nella prima parte, il tono sognante della visione. In ogni caso la naturale eleganza scenica della Babajanyan la aiuta a costruire un personaggio credibile, almeno per quanto questa regia le consenta: un’altra invenzione di Mazzonis, infatti, è quella di fare di Cho-cho-san una psicopatica che parla a un bimbo di tre anni ancora nella carrozzina, o al suo ritratto, per poi farci scoprire, alla fine, che il bambino non è che un fantoccio di sua invenzione. Un plauso a Karine Babajanyan per mantenersi attenta e aderente al personaggio fino alla fine: noi non ce l’abbiamo fatta. Di fronte a un elicottero di cartapesta che viene scaricato sul tetto di una casa e a una Butterfly mentecatta, con tanto di bambola reborn, noi abbiamo gettato la spugna, smettendo di credere a quello che guardavamo, e come noi gran parte del pubblico. Questo è esattamente il modo giusto per continuare a scavare il baratro tra “idea artistica” e pubblico, a disinteressarsi della partitura per creare una “nuova drammaturgia”. Come si può dare credito a “Tu, tu, piccolo Iddio”, se il bambino in questione è dentro una carrozzina? Come si può essere nella tragedia, se le preferiamo l’effetto speciale di un elicottero – peraltro nemmeno riuscito, considerato che si vede lontano un miglio che si tratta di una riproduzione in scala e che viene goffamente calato da una gru? Come può non essere suonato ridicolo tutto ciò a chi ha concepito, o per lo meno a chi ha guardato per la prima volta, questo spettacolo? Alla fine della travagliata recita si levano forti parole di disapprovazione, ma il commento migliore ci arriva dall’orchestra, quando una voce chiaramente esclama circa la pioggia: “Questo è Puccini che si vuole vendicare” …abbiamo capito di cosa. Foto Lorenzo Montanelli