Ridere (poco) delle follie del mondo 

Alla Ruhrtriennale Heiner Goebbels con Everything that happened and would happen e Christoph Marthaler con Nach den letzten Tagen. Ein spätabend riflettono sull’attualità

Everything that happened and would happen  (Foto Artangel)
Everything that happened and would happen  (Foto Artangel)
Recensione
classica
Bochum (e altre città della Ruhr)
Ruhrtriennale 2019 
21 Agosto 2019 - 29 Settembre 2019

Apertura con due leoni della scena europea Christoph Marthaler e Heiner Goebbels per la Ruhrtriennale 2019, la seconda diretta da Stephanie Carp, meno segnata dalle polemiche rispetto all’edizione 2018 ma non meno attenta al clima del nostro tempo. C’è una grande sintonia di fondo in Nach den letzen Tagen. Ein Spätabend (Dopo gli ultimi giorni. Una tarda serata) di Marthaler e Everything that happened and would happen di Goebbels già nel più o meno esplicito riferimento al tempo, al nostro tempo, e nello sguardo mestamente ironico con il quale questi due maestri guardano alle follie del mondo, del nostro mondo. Lontanissimi dal formulare giudizi, Marthaler e Goebbels mettono lo spettatore davanti a puri fatti, a segnali, certamente non scelti e accostati a caso. Allo spettatore il compito di indagare il senso. 

 

Più esplicitamente engagé è Christoph Marthaler che in Nach den letzen Tagen attualizza e aggiorna il suo Letzer Tage. Ein Vorabendallestito nel 2013 per le Wiener Festwochen. Allora la scena era la storica sala dell’antico Parlamento austriaco, mentre oggi è l’Audimax dell’Università della Ruhr a Bochum, il grande auditorium di 1750 posti trionfo dell’architettura brutalista anni ’60, che si presta da aula di un Parlamento avveniristico svuotato di ogni contenuto e funzione. In quella grande aula i pochi parlamentari omaggiano l’Imperatore Hohenzollern di una presunta Europa unificata e etnicamente pura, nella quale africani e musulmani sono stati messi ai margini e in condizione di non interferire nei processi sociali e politici del continente. I discorsi dei pochi deputati sparsi nel grande catino di seggi per lo più vuoti sono reali e scelti dalla drammaturga Stephanie Carp fra la ricca letteratura del populismo europeo pre-fascista di varie epoche, fatti rivivere come in una dadaista clownerie dagli attori/performer abituali dell’universo marthaleriano, cioè Tora AugestadBenito BauseCarina BraunschmidtBendix DethleffsenWalter HessClaudius KörberKatja KolmStefan MerkiJosef OstendorfElisa Plüss e Bettina Stucky. Un feroce razzismo antisemita trasuda nel discorso che Karl Lueger, sindaco della modernizzazione di Vienna, pronunciò nel 1894 nel Parlamento austriaco e riprodotto con tono sommesso e inquietanti consonanti affilatissime dallo straordinario Ostendorf. Razzismo allo stato puro si respira nella velenosa e fredda argomentazione pseudo-scientifica della rappresentante del FPÖ, Susanne Winter, cui risponde l’attore Bause in un’appassionata quanto toccante arringa virtuosisticamente multilinguistica che impiega le parole dei neri James Baldwin, Achille Mbembe e Julius Nyerere per un messaggio orgogliosamente e disperatamente egualitario. E si arriva all’autonominato argine della grande sostituzione etnica, l’ungherese Victor Orbán, è inquietante e doloroso costatare come la grammatica dell’odio sia la stessa nonostante le differenze di tempi e luoghi (“Non sono razzista ma …”). E più le sparano grosse e più aumentano i like e più si ingrossano i cuoricini … 

Doloroso è anche il controcanto musicale, autentico amplificatore emotivo, che Marthaler assembla come un mosaico di frammenti di umori molto diversi di Pavel Haas, Viktor Ullmann, Alexandre Tansman, Józef Koffler, Erwin Schulhoff, Gideon Klein, Karl Loubé, Szymon Laks, Efim Skljarov, Ernst Bloch, Johann Schrammel, Erich Wolfgang Korngold e altri ancora eseguite dal clarinetto di Michele Marelli, il violino di Sophie Schafleitner, la viola di Claudia Kienzler, la fisarmonica di Martin Veszelovicz, il pianoforte di Hsin-Huei Huang e il contrabbasso di Uli Fussenegger, anche arrangiatore e direttore, ai quali spesso di accompagna la voce di Tora Augestadt. Autori spesso sconosciuti, ebrei tutti costretti all’esilio quando non uccisi nei campi di sterminio nazisti. I discorsi si spengono e i lamenti del coro di Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz di Luigi Nono riempiono lo spazio, come una sorta di requiem per quelle voci spente dalla violenza di ieri e per quelle che potrebbero spegnersi domani. Tutti gli interpreti si uniscono nel canto a cappella del verso “Wer bis an das Ende beharrt” (Chi persevera fino alla fine, sarà beato) dall’Elias di Mendelssohn, mentre abbandonano lentamente in una mesta processione il mare di sedie vuote. E poi anche quel canto si spegne e resta solo il silenzio. E il buio. 

Parla anche dell’oggi ma senza la stessa portata emotiva Everything that happened and would happen di Heiner Goebbels presentato in prima tedesca alla Jahrhunderthalle di Bochum in coproduzione con il Manchester International Festival e il newyorkese Park Avenue Armory. Parla della storia del XX secolo con le parole di Patrik Ouředník e del suo Europeana, sequenza paratattica di fatti e cortocircuito di relazioni che driftano sempre nel paradosso. È finita la storia? Lo diceva un politologo americano nel 1989 ma molti non conoscevano quella teoria e continuavano a fare la storia come se nulla fosse accaduto … Fanno sorridere i paradossi di Ouředník che smonta il senso della storia come Goebbels scompone il meccanismo del teatro attraverso una coreografia frenetica di montaggio e smontaggio continuo del catalogo di scenografie storiche messe insieme da Klaus Grünberg per Europeras I & II di Cage allestito negli stessi immensi spazi della Jahrhundertalle dallo stesso Goebbels nel 2012. È quasi un riflesso metatrale alla negazione di un senso alla storia dei frammenti di testo di Ouředník cui si assommano le videoproiezioni delle news senza commenti dell’emittente Euronews: un salvataggio al largo di Lampedusa, la danza rituale dei seguaci della Fratellanza Bianca Universale in Bulgaria, le proteste dei giovani di Hong Kong … 

Al senso di mancanza di un centro attrattore contribuisce non poco il trattamento musicale – quasi un omaggio ai meccanismi causali di Cage – affidato a un amalgama eterogeneo di suoni prodotti dai rabbiosi sassofoni di Gianni Gebbia, dalla chitarra ed elettronica di Nicolas Perrin, dall’organo di Léo Maurel, dalle inquiete percussioni di Camille Emaille e dal datatissimo sperimentalismo “messiaenico” delle onde Martenot di Cécile Lartigau

Molto lontana dall’apollineo equilibrio delle sue avventure teatrali più recenti, semina dubbi e solleva domande la nuova, scomoda creazione di Goebbels. Dubbi e domande che sono il primo motore del sapere. 

 

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