19 ottobre 2019 - 19:23

«Giulio Cesare in Egitto» di Händel: l’opera barocca conquista Milano

È la prima volta alla Scala che si ascoltano quattro controtenori in una volta sola. Superlativo Bejun Mehta (Cesare), incanta la Cleopatra di Danielle De Niese

di Enrico Girardi

«Giulio Cesare in Egitto» di Händel: l'opera barocca conquista Milano
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Nei teatri d’opera i successi si attribuiscono sempre sulla base delle prove dei direttori d’orchestra, dei cantanti e dei registi di turno. Ma il primo motivo dell’amplissimo successo che la platea scaligera tributa a Giulio Cesare in Egitto di Händel si deve a una musica di stupefacente bellezza — probabilmente il capolavoro del sassone — che ha il solo «torto» di circolare molto poco nella Penisola: basti dire che alla Scala di Milano, dove è in scena fino al 2 novembre, mancava dal 1956! Poi però, anche perché è eseguito decisamente bene, chi vi assiste riscopre che le melodie di questo Händel sono di incomparabile magnificenza (solo Mozart sfiora quei vertici), che la strumentazione non è mai banale e che il tutto è confezionato con la naturale eleganza propria dei sommi compositori.

Incanto senza fine, dunque, per tutte le quasi quattro ore di spettacolo, che sarebbero anche di più se non fosse tagliata una manciata di arie. L’esecuzione è ottima. Se è meno centrato nel repertorio classico, Giovanni Antonini è una garanzia per gusto, sensibilità e consapevolezza stilistica in quello barocco. Unisce alcuni «suoi» musicisti agli scaligeri — con strumenti d’epoca — e grazie anche ai continuisti non fatica a trovare un passo teatrale fluido e spedito, eppur capace di ampi slarghi e impalpabili sospensioni quando la musica lo richiede. Il cast, ottimo, si trova dunque naturalmente a suo agio: ciascuno sa quando e come respirare, fino a che punto «spingere» le variazioni nei «da capo», quando rispettare il dettato con rigore.

È la prima volta alla Scala che si ascoltano quattro controtenori in una volta sola. Il contraltista Bejun Mehta (Cesare) è superlativo per agilità, pastosità di timbro e omogeneità, ma non gli è da meno il sopranista Philippe Jaroussky (Sesto), che predilige gli squarci lirici. Molto bene anche il Tolomeo di Christophe Dumaux, mentre il basso Christian Senn (Achilla) fa il suo. Detto che Sara Mingardo è sempre il meraviglioso contralto che si conosce, e che dà corpo ai lamenti di Cornelia con una toccante profondità espressiva, molta curiosità suscita Danielle De Niese nei panni di Cleopatra. Un po’ «patatona» lo sembrava anche 15 anni fa, quando era fisicamente e vocalmente al top della carriera. Ma è ancora bellissima e molto brava. La malizia è quella che è, ma la capacità di sedurre è intatta. E se anni fa affrontava le insidie della parte con una facilità straripante, oggi lo fa grazie a un controllo assai vigile della tecnica. Personalità e carisma continuano a renderla la Cleopatra che farebbe innamorare ogni Cesare.

Giulio Cesare è un’opera seria ma come quasi tutte le opere serie settecentesche annovera non pochi ingredienti comici. La regia di Robert Carsen vanta il merito di valorizzare questi ultimi senza penalizzare i primi, in un insieme molto più fluido di quanto la struttura a numeri e i lunghi «da capo» non fanno temere. C’è anche manierismo nella sua messinscena — le divise militari e i mitra non si possono più vedere, lui li mette anche nei geroglifici egizi — ma il racconto non manca di idee simpatiche, tra ironia e satira politica. Tre in particolare: Cesare che osserva lo storico film di Mankiewicz con Danielle De Niese che prende il posto di Liz Taylor; Cleopatra che canta «Da tempeste» nella schiuma di una vasca da bagno; il lieto fine con Egizi e Romani che suggellano la pace su un oleodotto, mentre gli operai caricano sulle navi i barili di petrolio.

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