MILANO. Un’attesa di 62 anni è lunghetta, ma diciamo che ne è valsa la pena. Incredibilmente, Giulio Cesare in Egitto, l’opera più popolare di Haendel, era stata rappresentata alla Scala una volta sola, nel 1957, ovviamente secondo il gusto del tempo che poi significa il disgusto per quello attuale. Questa nuova produzione ha avuto una gestazione complicata. Doveva essere il grande ritorno di Cecilia Bartoli a Milano, un’opera all’anno per un triennio. Poi però Santa Cecilia ha colto al balzo la palla della non riconferma di Pereira per tagliare la corda. Ma sparita una primadonna se ne prende un’altra, nella circostanza Danielle de Niese e, rimasto inalterato il resto del cast, venerdì l’opera ha ottenuto un successo entusiastico.

I meriti, per una volta, sono equamente divisi fra parte musicale e scenica. Certo, chiamare Robert Carsen significa andare sul sicuro: non si è per niente il più importante regista d’opera vivente. Carsen ovviamente colloca la vicenda ai tempi nostri (nota per le care salme modello «povero Haendel»: è esattamente quello che faceva lui, a giudicare dall’iconografia dell’epoca, quando nessuno si poneva problemi storicistici e una Cleopatra in guardinfante e un Cesare con la parrucca erano la regola e non l’eccezione), giocando con gusto su un Medioriente oscillante fra deserti tradizionali e modernità cheap. Romani ed egiziani indossano le stesse mimetiche da «desert storm», girano sulle stesse jeep, si scambiano regali imbarazzanti in sale «egizie» farlocche, da hotel tuttocompreso a Sharm, mentre la povera Cornelia prigioniera del lubrico Tolomeo viene messa a lustrare i bilancieri della palestra reale. Il problema dei «daccapo» viene risolto con ingegnosi siparietti che fanno passare da una scena all’altra senza interrompere il ritmo. Sullo sfondo, è chiaro che si tratta della solita sordida questioni di petrodollari: nell’happy end finale, un oleodotto attraversa il deserto, punteggiato da barili con il logo di un cammello, e chi ha la vista buona giura che avesse pure sei zampe.

L’ironia, questa grande invenzione del teatro di Haendel, è insomma sparsa a piene mani:  e del resto, si sa che i suoi intricatissimi libretti alludevano anche alle vicende politico-mondane della Londra coeva. Cleopatra è trattata particolarmente bene: seduce Cesare cantando mentre sullo schermo scorrono le grandi star del cinema alle prese con lo stesso personaggio, da Claudette Colbert a Liz Taylor passando per Vivien Leigh, poi naturalmente fa il bagno nel latte con una sexy emersione dalla vasca, modello vedo non vedo. La de Niese, peraltro, il fisico l’ha. Non tutto è nuovissimo: i peplum hollywoodianim li aveva già citati Ronconi a Bologna, il «Va tacito» come balletto diplomatico l’aveva già fatto Jones a Monaco, i balletti tout court li aveva già messi McVicar a Glyndebourne. Diciamo che non è uno dei Carsen ottimi massimi: ma già un Carsen «medio» è meglio, e molto, di quasi tutti.

Sul podio di un’Orchestra della Scala «antichizzata» c’è Giovanni Antonini, che dà il meglio nelle arie lente, cui un sottile gioco di «rubati» dà un languore sensuale o un patetismo straordinari: e sono sempre molto belle le cadenze. Nelle arie di bravura ci vorrebbe forse più mordente, ma magari abbiamo le orecchie troppo inflazionate dal «ba-rock» imperante e impazzante. Orchestra alterna: il continuo funziona benissimo e i progressi nello «storicamente informato» sono innegabili ma non hanno ancora toccato i corni (e tuttavia non capita quasi mai di ascoltare «Va tacito» senza che ne scrocchi uno). Nel complesso, una bella direzione, che con il suo gioco di contrasti non esasperati si fonde bene con lo spettacolo, e pratica tagli tutto sommato ragionevoli: con un solo intervallo, si sfiorano comunque le quattro ore, ma senza annoiarsi un attimo.

Dopo averli tenuti al bando per decenni, la Scala si è improvvisamente convertita ai controtenori. Qui ce ne sono quattro, addirittura più dei castrati schierati da Haendel alla prima, che erano solo tre. A parte il promettente Luigi Schifano parcheggiato nella piccola parte di Nireno, sono tutti notissimi titolari dei rispettivi ruoli. Bejun Mehta dà a Cesare un volume e una «presenza», fisica e musicale, notevolissimi: nella prima aria le agilità non sono troppo fluide, in seguito migliorano, ma il meglio Mehta lo esibisce nelle arie liriche, sfoggiando anche una bellissima messa di voce sull’attacco di «Aure, deh per pietà». Philippe Jaroussky ha un timbro chiarissimo e, diciamo così, adolescenziale che sta benissimo a Sesto, ma non era troppo in forma e gli è uscito qualche suono un po’ chioccio. Invece Christophe Dumaux è il solito eccezionale Tolomeo, un personaggio con il quale è ormai tutt’uno. Però questa volta lo ripensa e, invece del solito satrapo effeminato, ne fa un maschione barbuto e aggressivo,  e devo dire che funziona anche così, anzi forse meglio. Sara Mingardo è la consueta meravigliosa Cornelia, voce di vero contralto di velluto inconfondibile benchè di volume non torrenziale, e interprete di nobiltà ed eleganza inappuntabili. Christian Senn non dà invece troppo risalto ad Achilla, forse perché gli rimane un’aria sola, mentre un altro giovin cantante assai interessante è il basso Renato Dolcini che fa Curio. Resta ovviamente Cleopatra, cioè la de Niese. Come interprete, nulla da dire: è il suo cavallo di battaglia e il mix di sensualità, ironia e determinazione da donna in carriera che sfoggia è perfetto. Non canta male, ma non è però una virtuosa pura, come dimostra il «Da tempeste»; inoltre, avendo o temendo di avere una voce piccola per la Scala, talvolta la forza inutilmente. E’ stata comunque la più applaudita in una serata dove sono stati applauditi molto tutti.

Insomma, un bello spettacolo, forse anche uno spettacolo «storico» perché, dopo Il trionfo del Tempo e del disinganno e Tamerlano, dimostra che la Scala non ha più paura di Haendel e soprattutto Haendel non fa più paura al suo pubblico. Seguiranno nelle prossime stagioni, com’è noto, Agrippina e Ariodante. Bene, anzi benissimo. E tuttavia resta sullo sfondo, irrisolto, il vero problema artistico della Scala, che è poi il problema di tutto il mondo operistico italiano. Per rendersene conto, bastava origliare qualche conversazione l’altra sera o leggere qualche recensione nei giorni seguenti. Il punto è che quello che è normalissimo ovunque, cioè fare Haendel (dodicesimo operista più rappresentato al mondo, per inciso), farlo con una regia «moderna» e farlo cantare dai controtenori, qui sembra ancora una conquista o una sfida. La Scala paga ancora le scelte autarchiche e provinciali fatte sul finire del secolo scorso, quando si autoisolò, e isolò l’Italia, da tutto quel che succedeva nel resto del globo. La conseguenza è che da almeno trent’anni la Scala non dà più la linea, non sperimenta, non scopre o riscopre autori e interpreti, non impone modalità esecutive. Non lancia tendenze: le segue. 

Chi scrive probabilmente non è l’appassionato-tipo. Però per me quello di Milano era il diciannovesimo Giulio Cesare, già sentite tutte le prime parti nei rispettivi personaggi, e Dumaux cinque volte come Tolomeo. Che se ne parli come di chissà quale rivelazione o conquista fa ridere, come i mille dubbi e paure su come lo prenderà la gente. E come deve prenderlo? Come lo dappertutto da mezzo secolo, con gioia, e se qualche reperto assiro-milanese di ignoranza pari solo all’arroganza non vuole i controtenori perché non piacevano a Celletti trent’anni fa (senza contare che nel frattempo sono diventati tutta un’altra cosa), bene, sono problemi suoi, e non si capisce perché siano problemi di tutti. E’ un problema, invece, che questo benedetto amato teatro arrivi sempre vent’anni dopo. E’ una Scala-Trenitalia perennemente in ritardo, e senza nessuno che si scusi per il disagio. 

 

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