Le lacrime della Peri

A Palermo Il Paradiso e la Peri di Schumann in una versione per la scena firmata del collettivo teatrale Anagoor 

Il Paradiso e la Peri (Foto Rosellina Garbo)
Il Paradiso e la Peri (Foto Rosellina Garbo)
Recensione
classica
Palermo, Teatro Massimo
Il Paradiso e la Peri 
24 Ottobre 2019 - 29 Ottobre 2019

Né opera né oratorio ma “Dichtung”, cioè “poema”. Non destinato a una scena di teatro ma nemmeno a un luogo di preghiera. Schumann lo pensò per “heitere Menschen”, per “persone serene”, il suo “Il Paradiso e la Peri”, singolare composizione ispirata al poema “Lalla Rookh” di Thomas Moore di un genere nuovo per le sale da concerto. Al Teatro Massimo di Palermo si è deciso invece di trattare quell’insolito crocevia di generi diversi come un lavoro per la scena affidandolo a uno dei gruppi teatrali che ha l’utopia già nel nome, Anagoor, la città del racconto di Dino Buzzati che nessuna carta geografica riporta, e al suo “Gesamtkunstler” Simone Derai, mente creativa della concezione drammaturgica con la consulenza di Klaus Peter Kehr

Per questa loro prima incursione nell’universo creativo di Robert Schumann, il collettivo di Castelfranco Veneto, dopo il bel Faust di Charles Gounod allestito un paio di stagioni fa per i teatri di Modena, Reggio Emilia e Piacenza, tornano piuttosto all’esperienza del precedente Et manchi pietà e a quella singolare e potente drammaturgia creata dal corto circuito di immagini e musica, in quel caso barocca, eseguita dal vivo. Anche in questa nuova produzione un ruolo fondamentale lo assumono le immagini video proiettate su un grande schermo quadrato, che mostra il ricamo calligrafico della parola Allah in tubi luminescenti all’inizio e alla fine della rappresentazione, sospeso al centro della scena digradante verso la platea e decorata come un grande tappeto persiano. Lo schermo è l’unico elemento sulla scena nuda davanti al grande muro di mattoni della parete di fondo del palcoscenico ha l’aspetto suggestivo di un monumento antico grazie all’efficace disegno luci di Fabio Sajiz

Se nel loro Faust l’incipit della narrazione per immagini era l’immagine del vecchio Goethe al termine di un lunghissimo e tormentato percorso creativo, qui è l’immagine di uno Schumann trentenne circondato da Clara e i quattro figli. La sua immagine è spesso sfuocata, sintomo di una identità labile, e l’espressione assente, segno di quella paralisi emotiva che ridurrà la sua musica al silenzio. Lacrime scendono dai suoi occhi, come le lacrime della Peri e soprattutto come la lacrima di quel soldato che le aprirà la porta del paradiso perduto, quasi che l’inaccessibilità dell’Eden alludesse alla impenetrabilità nella psiche tormentata del compositore. Un’immagine del passato che anticipa le bellissime immagini girate soprattutto nell’Iran contemporaneo da Giulio Favotto con la regia di Simone Derai durante un viaggio durato numerose settimane. Nonostante l’India, l’Egitto e la Siria del poema di Moore siano, come oggi, afflitti da guerre, malattie e morte, l’occhio della Peri coglie sempre la bellezza e la maestosità di quei luoghi che attraversa affannosamente alla ricerca della chiave per il paradiso. In modo simile, l’occhio di Anagoor coglie nei luoghi del proprio viaggio, non meno scossi da tensioni, un universo di volti che popolano, secondo il regista Derai, “un luogo dello spirito universale, uno spazio che sa abbracciare tutti gli occidenti e gli orienti del mondo.” Nel teatro di immagini di quello schermo quadrato appeso sulla scena lo spettatore assiste all’Iran della rivoluzione khomeinista con i suoi martiri, ma anche all’amore clandestino fra una nordafricana e un africano fra i monumenti funebri del Museo Egizio di Torino (nel secondo episodio che ricorda l’anarchica leggerezza del cinema di Truffaut) e infine ai sorrisi nei volti dei siriani in fuga in cerca di pace da una guerra devastante. È l’umanità che vince nonostante tutto, è la stessa umanità del soldato che con le sue lacrime apre le porte del paradiso alla Peri. 

La forza di quelle immagini, proiettate con passo rallentatissimo quasi come in un sogno, è la vera spina dorsale e l’elemento drammaturgico più significativo di questa produzione, molto più che i movimenti scenici dei cinque solisti, che suggeriscono una interazione fatta di racconti, di riflessioni, di giudizi come nelle favole di un tempo. Un dialogo racchiuso fra le due ali del coro in scena, immobile e con spartito come in un concerto, e dell’orchestra ai piedi del palcoscenico, sul piano della platea. 

Quelle immagini forti e prive di giudizio morale o di facili lezioni politiche, si fanno carico del portato emotivo dello spettacolo, anche più che la musica di Schumann, guidata con energico piglio beethoveniano da Gabriele Ferro, tranne che nel secondo episodio piuttosto ispirato a un delicato intimismo schubertiano, ed eseguita dall’Orchestra del Teatro Massimo, piuttosto sciatta e spesso imprecisa. Più riuscite le esecuzioni degli interpreti vocali, soprattutto dalla Peri, resa con sensibile partecipazione da Sarah Jane Brandon in chador nero. Il tenore Maximilian Schmittevoca le meditazioni profonde di un evangelista bachiano, mentre il basso-baritono Albert Dohmen incarna con efficacia la figura del viandante, che ha conosciuto il mondo. A loro si aggiungono le buone prove del mezzosoprano Atala Schöck e del soprano Valentina Mastrangelo. Buona anche la prova del Coro del Teatro Massimo guidato da Ciro Visco ma si avverte la mancanza di un’autentica partecipazione anche emotiva nell’allestimento. 

Sala non pienissima alla prima, pubblico mediamente distratto, ma risposta calorosa alla fine dello spettacolo. 

 

 

 

 

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