Don Carlos integrale a metà 

Alla Staatsoper di Stoccarda inaugurazione con la versione in cinque atti dell’opera di Verdi in un deludente allestimento di Lotte De Beer 

Don Carlos (Foto Matthias Baus)
Don Carlos (Foto Matthias Baus)
Recensione
classica
Staatsoper Stuttgart
Don Carlos
27 Ottobre 2019 - 18 Aprile 2020

Il maggiore interesse della produzione del Don Carlos verdiano, che ha aperto la stagione della Staatsoper di Stoccarda, non è tanto la versione in cinque atti ma soprattutto la riapertura di alcuni tagli voluti dallo stesso Verdi già alla prima assoluta a Parigi. A rigore non si può davvero parlare di approccio filologico, giacché non si tratta della versione “pura” andata in scena a Parigi nel 1867 ma della terza versione del 1886 per Modena, una sorta di compromesso rispetto alla versione drasticamente accorciata per Milano nel 1884, per l’occasione ritradotta in francese e reintegrata del balletto del terzo atto (senza comunque le due scene introduttive) ma soprattutto del coro “L'hiver est long ! La vie est dure !” che apre il primo atto, di rarissima esecuzione. Per aggiungere un ulteriore tocco di originalità, la polka che chiude il balletto della Pellegrina nel terzo atto viene sostituita dalla sua riscrittura “politica” Pussy-(r)-Polka composta nel 2013 dall’austriaco Gerhard E. Winkler sovrapponendo alla scrittura verdiana uno strato di “musique concrète” fatto di catene e fischietti come omaggio ai componenti della rock band Pussy Riot arrestati per le critiche al Cremlino e alla Chiesa di Mosca. 

Lettura politica dunque? Forse! Sì, perché fra le intenzioni, certamente pertinenti trattandosi dell’opera più politica di Verdi, e la realizzazione, affidata alla giovane promessa della regia lirica, l’olandese Lotte De Beer, c’è davvero un abisso. Se si esclude una certa eleganza nella costruzione delle immagini con i costumi e le scene dal segno minimalista di Christoph Hetzer – due alte e cupe pareti a libro e pochi altri elementi d’attrezzeria – valorizzate dalle belle luci di Alex Brok, è difficile immaginare regia più rozza e inconsistente di quella vista a Stoccarda. Dell’ambientazione in un futuro non troppo lontano non si coglie davvero il senso. Ma è soprattutto il disegno di personaggi ridotti a macchiette e una realizzazione scenica che si rifugia dietro ai più trito cliché a rivelare una sostanziale mancanza di idee sull’opera verdiana: Don Carlos è un tremebondo psicotico e psicofarmaco-dipendente, mai ripresosi dai traumi infantili che prendono corpo nel sinistro branco di bambini innocenti solo all’apparenza; Filippo II un violento dittatorello che canta “Ella giammai m’amò” a letto con Eboli; il Grande Inquisitore un lubrico individuo con la morbosa passione di baciare le sue vittime in bocca, Filippo II incluso (come in una citazione dell’appassionato bacio fra Breznev e Honecker). Se escono vagamente meglio Posa e Elisabetta è solo per caso, mentre la povera Eboli è mostrata nella parabola di un’improbabile conversione esistenziale da gran damazza e amante del re ad arruffapopoli nella rivolta del quarto atto, che le costa la condanna a morte con bacio dell’Inquisitore. 

Le luci e soprattutto le ombre non sono limitate alla scena ma investono anche la realizzazione musicale, guidata con grande vigore da Cornelius Meister. Si nota e si apprezza soprattutto l’accurata concertazione e la cura del suono della Staatsorchester di Stoccarda anche se il vivace contrasto della tavolozza sonora è travolto talora da un’enfasi esagerata. La compagnia di canto è parecchio diseguale, specialmente sul piano stilistico quando non su quello del gusto. Le prove più riuscite sono quelle di Massimo Giordano, che fortunatamente dissocia la caricatura registica dall’interpretazione musicale restituendo a Don Carlos almeno un deciso temperamento vocale, di Björn Bürger (Posa), che non può propriamente dirsi voce verdiana ma è interprete intelligente e elegante, e di Olga Busioc (Elisabetta di Valois), che riscatta solo con “Toi qui sus le néant des grandeurs de ce monde” (“Tu che le vanità” nella versione italiana) una prova altrimenti insignificante. Molto meno convincenti la spiritata Ksenia Dudnikova (Eboli) ma soprattutto Goran Jurić, un Filippo II corrivo e vocalmente sciatto, e Falk Struckmann, che risolve la sinistra figura dell’Inquisitore nel segno dell’esteriorità muscolare. Davvero straordinaria la prestazione del Coro della Staatsoper di Stoccarda preparato da Manuel Pujol, che si conferma anche in questo Verdi uno dei pilastri di questo teatro. 

L’attesa per quest’apertura era grande ed è stata ripagata da lunghi applausi alla prima, con solo qualche timida contestazione all’indirizzo del team registico.  

 

 

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