Venezia: cupo e seducente il Don Carlo inaugurale al Teatro La Fenice

È considerazione largamente accolta che il finale di Don Carlo sia irrisolto. Lo è nella versione francese e in quella italiana, dal 1867 di Parigi al 1884 di Milano. Dopo una storia terribile di potere e sopraffazione, di oscurantismo e violenza, nella quale l’integralismo religioso ha una delle sue rappresentazioni più sconvolgenti e moderne, mentre ci si aspetta che il personaggio del titolo venga consegnato al boia della Sacra Inquisizione dal suo stesso regale genitore Filippo II, nell’opera fa irruzione l’elemento soprannaturale a scopo di lieto fine. Ben altrimenti accadeva nella tragedia di Schiller dalla quale è tratto il libretto. Come spiega il musicologo Paolo Gallarati: «Verdi voleva che in un mazzo di luce d’oro, uscendo dalla tomba di Carlo V (il nonno del protagonista; N.d.R.) apparisse il frate del II atto che era in realtà lo stesso Carlo V, col manto e la corona regale, e fra lo sconcerto generale, trascinasse nel chiostro Don Carlo per salvarlo dalla condanna di suo padre e dell’Inquisitore […]».

Questa singolare virata in fondo a una storia nera come poche altre rappresenta uno dei maggiori problemi della moderna regia d’opera al cospetto di questa partitura eccezionalmente “irregolare” e affascinante: probabilmente il Verdi più sperimentale e avanzato, paradossalmente in un lavoro nato in riferimento all’ormai superato gusto del grand-opéra alla francese.

Alla Fenice, per la travagliata e infine trionfale inaugurazione di stagione messa a rischio dalle disastrose acque alte novembrine, Robert Carsen la risolve con un coup de théâtre sorprendente: il frate del II atto si palesa essere, oltre che Carlo V, anche uno spietato killer al soldo del Grande Inquisitore. Pistola in pugno, prima fa secco Don Carlo, poi uccide anche Filippo II. La congiura è compiuta quando si vede apparire il marchese di Posa con la corona regale. Nell’opera, Posa è morto stecchito (a sua volta fatto fuori da un sicario dell’Inquisizione) dalla fine del terzo atto, ma bisognava sospettare che – in questa narrazione – così non fosse: infatti un primo momento di sbalordimento si era avuto quando Posa, a terra senza vita per lunghi minuti, mentre la scena si concludeva si era inopinatamente rialzato e aveva stretto la mano con aria d’intesa proprio al Grande Inquisitore.

Una trovata da serie televisiva. Eppure, questo finale non ha incrinato l’effetto di uno spettacolo speciale per densità e forza, teatro allo stato puro costruito dentro alla musica con una visione quasi espressionista che benissimo coincideva con la fascinosa irruenza delineata dal direttore Myung-Whun Chung. Carsen rilegge Don Carlo soprattutto come una tragica parabola sul conflitto fra potere e religione, quasi mettendosi nella prospettiva di Filippo II, che dopo il memorabile confronto-scontro con l’Inquisitore dovrà ammettere che nel rapporto fra trono e altare, sarà sempre quest’ultimo a prevalere. Per farlo, riconduce l’elemento sentimentale alle logiche devastanti della ragion di stato, in piena aderenza al testo verdiano (qui l’amore è colpa o fuga da essa), e rinuncia a ogni colore caratteristico spagnolo. Anzi, rinuncia proprio al colore. La oppressiva, claustrofobica scena di Bradu Boruzescu è tutta nelle sfumature dell’antracite, una sorta di scatola chiusa nella quale si aprono gli spiragli necessarie a suggerire l’idea del chiostro, o della chiesa. Il giardino di Elisabetta di Valois è rappresentato da una distesa di gigli recisi.

Lo spazio della rappresentazione è vuoto, astratto. Tutti i personaggi sono vestiti di nero (costumi di Petra Reinhardt), senza segni specifici del potere o dei ruoli, ma con chiare allusioni, nelle masse, alla dimensione religiosa. Le luci, firmate dallo stesso Carsen con Peter Van Praet, completano il quadro: taglienti, sbieche, “parlanti” come nella scena a quattro del terzo atto, in cui il regista allinea semplicemente i personaggi nel vuoto scenico (Filippo II, Elisabetta, la marchesa di Eboli e Posa) lasciando alla drammaturgia musicale di Verdi il compito di scolpire il rovente scontro psicologico. Il clou spettacolare dell’opera, il celebre autodafé degli eretici alla fine del II atto, è un altro momento di grande teatro: a bruciare emblematicamente non sono i perseguitati per la fede, ma i libri che sono stati loro sequestrati, ammucchiati ai piedi di Filippo II. I condannati saranno giustiziati brutalmente, incappucciati, con un colpo di pistola alla testa mentre si chiude il sipario: immagine simbolo della sanguinarietà di ogni totalitarismo. Inquietante anche se solo accennata, non compiuta.

Spettacolo seducente nel suo rigore e nella sua teatralità allo stato puro, del quale il discutibile finale è solo un episodio e neanche decisivo, questo Don Carlo è risultato altrettanto straordinario sul piano musicale. E vale la pena di sottolineare come la complessiva riuscita, date le difficoltà di un lavoro condotto quasi tutto in emergenza assoluta, abbia alla fine testimoniato come meglio non si poteva la forza organizzativa e la qualità della Fenice, un teatro d’opera oggi con pochi eguali in Europa.

Seguito dall’orchestra della Fenice con nitida efficacia e adeguato rilievo in tutte le sezioni, Myung-Whun Chung ha condotto una rilettura del Don Carlo basata sul risalto sinfonico della partitura verdiana, fra accensioni drammatiche e ripiegamenti introspettivi capaci di illuminare la complessità di una scrittura che ha i suoi punti caratterizzanti nella cangiante tavolozza armonica, nella ricchezza timbrica, nella sostanziale libertà dalle forme vocali precostituite. È emersa così, oltre agli inevitabili riferimenti stilistici francesi, che derivano dalla commissione parigina iniziale, la grande originalità di una partitura densa e multiforme, che anche nelle parti vocali sta in fervido equilibrio fra la naturale forza comunicativa della melodia e l’energia della scena, dentro alla quale la parola cantata diventa elemento costituivo e decisivo della drammaturgia.

Su questa linea si sono mossi tutti i protagonisti di un cast vocale che è risultato, come poche volte capita di trovare, omogeneo nell’alto livello. Alex Esposito ha disegnato un Filippo II di sofferta incertezza e di feroce determinazione: un ritratto psicologico sfaccettato, rispecchiato in una vocalità ricca, duttile, magistralmente controllata. Rimpianto e dramma hanno avuto nella linea di canto di Maria Agresta, Elisabetta di Valois, l’eleganza e la sofferta consapevolezza che sono gli elementi costitutivi del personaggio, cesellati sulla seducente qualità timbrica non meno che sulla profondità espressiva. Il tenore Piero Pretti è stato un Don Carlo squillante ma anche meditabondo, a delineare con poetica evidenza la dolorosa natura di antieroe del personaggio, mentre Julian Kim è stato un marchese di Posa di rotonda cantabilità e limpida forza drammatica. Eccellente anche Veronica Simeoni nel ruolo tutto contrasti espressivi della principessa di Eboli, vendicativa e alla fine disperata. Una parte di straordinario spessore che è stata resa dal mezzosoprano con sapiente sottigliezza e precisione nell’emissione e nella definizione del colore. Infine, in quest’opera che conta sei protagonisti praticamente paritetici, Marco Spotti è stato un Grande Inquisitore inquietante e inesorabile, con la necessaria pienezza del colore anche nella zona più bassa di una tessitura assai grave e costante controllo del fraseggio.

Positivo anche tutto il gruppo dei comprimari, fra i quali vale la pena di segnalare in particolare il frate risentito di Leonard Bernad e il paggio Tebaldo disegnato con eleganza da Barbara Massaro. Il coro istruito da Claudio Marino Moretti si è proposto con appassionata partecipazione ed efficace presenza scenica.

Teatro gremito, accoglienze trionfali alla prima, con lievi e sporadici segni di dissenso per Carsen.

Cesare Galla
(24 novembre 2019)

La locandina

Direttore Myung-Whun Chung
Regia Robert Carsen
Scene Radu Boruzescu
Costumi Petra Reinhardt
Luci Robert Carsen, Peter Van Praet
Personaggi e interpreti:
Filippo II Alex Esposito
Don Carlo Piero Pretti
Rodrigo Julian Kim
Il grande inquisitore Marco Spotti
Un frate Leonard Bernad
Elisabetta di Valois Maria Agresta
La principessa Eboli Veronica Simeoni
Tebaldo Barbara Massaro
Il conte di Lerma Luca Casalin
Un araldo reale Matteo Roma
Una voce dal cielo Gilda Fiume
Deputati fiamminghi Szymon Chojnaki, William Corrò, Matteo Ferrara, Armando Gabba, Claudio Levantino, Andrea Patucelli
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti

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