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Venezia: alla Fenice il «Don Carlo» vince l’acqua alta

Teatro tutto esaurito anche se la musica «mostra qualche piccola falla, qua e là»

di Carla Moreni

4' di lettura

È tutto sold out per le altre quattro repliche di questo “Don Carlo”, cupo e lancinante nella direzione di Myung-Whun Chung, scopertamente politico e anticlericale nella regia di Robert Carsen, di mano meravigliosa.

Alla Fenice non si trova un posto, biglietti tutti esauriti. Non c'è acqua alta che tenga. A Venezia si va lo stesso, in qualunque modo. Una tappa in teatro è obbligatoria, perché il mondo piccolo e grande sa che qui batte il cuore della città. Ci si arriva a tutti i costi - a fine spettacolo sarà tutto un cambiarsi di scarpe al guardaroba, di pubblico elegante che depone i tacchi e calza gli stivali di gomma - ma questo luogo resta aperto e vivo.

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Le Fenice
È una testimonianza alta, quella che arriva dalla Fenice, che ha conquistato in corsa questa alta inaugurazione di stagione. Più della marea, di nemmeno due settimane fa, col metro e ottantasette di acqua dentro il teatro, in pieno periodo di prove. Col sovrintendente Fortunato Ortombina che scardina di notte i lucchetti degli armadietti dove gli orchestrali ripongono i loro strumenti, per salvarli da una ecatombe. Senza luce, saltati gli impianti (due milioni di danni) le prove del “Don Carlo” si faranno a Treviso, nel teatro che offre fraterna ospitalità. Avanti e indietro coi pullman, non una protesta, non una rivendicazione. I cantanti tengono prove di regia direttamente in casa di Carsen. I piani di programmazione saltano, si lavora a denti stretti. Niente prova generale, la meta è la prima.

Acqua alta
Quando suonano ancora gli allarmi delle sirene dell'acqua alta. Ma Venezia ha una sua forza interna di sopravvivenza e tenacia insuperabili. Ortombina starà per tutta la durata dell'opera in piedi, in fondo sala, immobile, come un capitano che tiene la rotta della sua nave.
Verdi vince l'acqua alta.

Il “Don Carlo” che apre la ricca stagione veneziana dimostra quanto l'arte sia salvifica. Più delle parole del sindaco Luigi Brugnaro, che legge per quindici minuti un messaggio ringraziamento alla città (e da ultimo anche al teatro) e dopo dieci di musica scappa via. Più della presenza delle autorità, nel palco reale, dove svetta il presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati - e perciò viene eseguito l'Inno, tutti in piedi a cantare sommessi - ma basta l'intervallo e il palco reale è desolatamente vuoto.

Applausi
Ad applaudire le maestranze della Fenice, al completo sul palcoscenico, in abiti da lavoro, in mezzo agli interpreti dell'opera, c'è l'intera sala, commossa, entusiasta. Non solo della musica.

Questa - è ovvio - mostra qualche piccola falla, qua e là. E chi assisterà alle prossime recite di “Don Carlo” si troverà di fronte a una esecuzione meno in clima di emergenza, più limata. Tuttavia la tensione fa da ideale contraltare al corrusco titolo spagnolo, che lo spettacolo di Carsen (da Strasburgo) osa completamente chiuso in un enorme loculo grigio-nero, dove i costumi (Petra Reinhardt) sono interamente neri, e domina un vischioso clima di religione malata, tra tonache di preti e suore (e ben 24 bare, nella scena ultima). Per chi va a teatro perché ama pensare, c'è il taglio nuovo dato a Rodrigo, un Posa infingardo, che prende di ognuno le confidenze per tradirle: e infatti finisce come nuovo Re di Spagna, con la corona stupenda, a cupola dardeggiante, che lo vede trionfare, dopo aver fatto fuori a pistolettate gli altri, Filippo II compreso.

L'assenza totale di decori
Non è Schiller. Nemmeno Verdi. Ma in tema di interpretazioni ci sta. A conclusione di una lettura teatrale profonda, dove Carsen si mostra maestro di teatro di gruppo e di effetti, capace di trasformare la scena in un tappeto di gigli, unico momento di colore, distribuiti dalle brave artiste del coro nell'atto femminile dell'opera. L'assenza totale di decori, l'impianto carcerario di Radu Borozescu, tra porte e finestre che si aprono come spioncini, crea una drammaturgia concentrata sui protagonisti, stagliati uno ad uno, come i ritratti neri di Tiziano.

I duetti sono confronti da teatro puro, tra Elisabetta e Carlo - in progressione, straziata la resa conclusiva, quando gli amanti si appellano madre e figlio - e ancor di più tra Filippo II e il Grande Inquisitore. Dopo questo “Don Carlo” per un po' sarà insopportabile vederne altri in costume, in parata, in tinte decorative.

Ed è così compatto lo spettacolo, che la compagnia è da prendere in blocco. Vocalmente il migliore è Alex Esposito, che debutta un Re di Spagna amaro, finalmente non senile, violento, anche di timbro meno scuro dei soliti, e con certi fiati di mostruosa durata. Gli sta accanto Piero Pretti, bello nel canto estroverso, anche lui finalmente un Carlo virile e fragile, venatamente psicotico. Rodrigo ha la voce importante di Julian Kim, non sempre duttile (e di debole italiano), mentre il Grande Inquisitore di Marco Spotti ha qualche défaillance da serata difficile. Le due donne, Elisabetta e Eboli, appaiano le voci e il temperamento di Maria Agresta, di grande incisività tragica, tecnica sorvegliatissima, e di Veronica Simeoni, toccante per teatralità e senso della parola, con qualche disomogeneità di registro. Barbara Massaro è un paggio (in abito da suora) pungente, il sestetto dei deputati fiamminghi intonatissimo. Ottimo il Coro, diretto da Claudio Marino Moretti, ben definito nei settori, perfettamente equilibrati.

Ma l'altro capitano del “Don Carlo” è Myung-Whun Chung: non possiamo dire che senza di lui la nave non sarebbe arrivata in porto. Ma non avrebbe avuto questa sicura compattezza, a grande arcata, nonostante tutto. Cioè nonostante accompagnamenti che non accompagnano, in perenne autonomia rispetto al canto, e nonostante volumi in buca spesso da battaglia per le voci. Il Verdi che si ascolta ha molto in comune con Beethoven. E arcate di fraseggio travolgenti. E intuizioni inimmaginabili, ad esempio sul tema dell'amicizia tra Carlo e Rodrigo, decostruito, ad ogni uscita, con un senso di dolore e disfacimento infinito. Da riascoltare.

Don Carlo” di Verdi; direttore Myung-Whun Chung, regia di Robert Carsen; Venezia, Teatro La Fenice, fino al 7 dicembre

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