Venezia, Teatro La Fenice: un trionfale “Don Carlo” ha inaugurato la nuova Stagione Lirica

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2019-2020
DON CARLO”
Opera in quattro atti. Libretto di Joseph Méry e Camille Du Locle, dalla tragedia “Don Karlos, Infant von Spanien” di Friedrich Schiller, traduzione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini.
Musica di Giuseppe Verdi
Filippo II, re di Spagna ALEX ESPOSITO
Don Carlo, infante di Spagna PIERO PRETTI
Rodrigo, marchese di Posa JULIAN KIM
Il grande inquisitore MARCO SPOTTi
Il frate LEONARD BERNAD
Elisabetta di Valois MARIA AGRESTA
La principessa Eboli VERONICA SIMEONI
Tebaldo, paggio d’Elisabetta BARBARA MASSARO
Il conte di Lerma LUCA CASALIN
Un araldo reale MATTEO ROMA
Voce dal cielo GILDA FIUME
Deputati fiamminghi SZYMON CHOJNACKI, WILLIAM CORRÒ, MATTEO FERRARA, ARMANDO GABBA, CLAUDIO LEVANTINO, ANDREA PATUCELLI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Robert Carsen
Scene Radu Boruzescu
Costumi Petra Reinhardt
Light designer Robert Carsen e Peter Van Praet
Assistente alla regia e movimenti coreografici Marco Berriel
Allestimento Opéra national du Rhin – Strasbourg e Aalto-Theater Essen
Venezia, 3 dicembre 2019
Per la terza volta consecutiva la Fenice inaugura la propria stagione lirica con un capolavoro verdiano, affidandone la direzione musicale a Myung-Whun Chung, ormai di casa nel teatro veneziano, dove ha inaugurato anche l’attuale stagione sinfonica. Dopo Un Ballo in maschera e Macbeth è la volta di Don Carlo, per cui è stato scritturato un giovane cast, nel quale spiccano tre prestigiosi debutti: del tenore Piero Pretti nel ruolo eponimo, di Alex Esposito nel ruolo del basso Filippo II, del baritono Julian Kim nel ruolo del marchese di Posa. Responsabile degli aspetti visivi dello spettacolo è un regista attualmente considerato tra i più originali e innovativi, Robert Carsen, tornato in laguna, per riproporre, in prima italiana, l’allestimento da lui ideato per l’Opéra National du Rhin di Strasburgo e l’Aalto-Theater di Essen. La tenacia e la professionalità dei dirigenti, delle maestranze, degli artisti, impegnati in questa produzione hanno consentito, grazie anche ad aiuti esterni, che lo spettacolo inaugurale andasse regolarmente in scena, nonostante i danni riportati dal teatro in seguito all’acqua alta eccezionale, che ha colpito Venezia il 13 novembre e nei giorni seguenti. Opera dalla genesi particolarmente travagliata, il Don Carlo fa ancora discutere, in ragione delle almeno quattro versioni realizzate dall’autore: la prima, in francese, intitolata Don Carlos è un grand-opéra in cinque atti con i ballabili, andato in scena a Parigi nel 1867; la seconda (Napoli, 1872) è in buona sostanza la traduzione in italiano della precedente; un’ulteriore versione italiana, con il titolo di Don Carlo – mancante del primo atto e delle danze – fu predisposta, circa dieci anni dopo, per la Scala di Milano, dove fu allestita nel 1884, per essere di lì a poco sottoposta a revisione – risultando di nuovo in cinque atti, ma in italiano e senza i ballabili – e rappresentata a Modena nel 1886. Critici ed esecutori non sono concordi nel dare la preferenza all’una o all’altra partitura, comunque l’edizione milanese del 1884 viene tutt’ora largamente rappresentata, soprattutto per la sua maggiore concentrazione drammatica e le minori difficoltà, legate alla sua produzione. Tale è l’odierna versione attualmente proposta dalla Fenice, dal cui cartellone il Don Carlo era assente da ben ventotto anni. Cifra distintiva della concezione registica di Carsen è senza dubbio l’essenzialità, l’antiteatralità, il rifiuto di una sontuosa messinscena“in costume”, che avrebbe creato una distanza estraniante rispetto allo spettatore, per concentrarsi sul dramma dei singoli personaggi, sulle loro emozioni e, in definitiva sulla musica, che ne è sublime cassa di risonanza. La scena è dominata dal grigio scuro e dal nero. In un vasto interno, spoglio e cupo, quasi sempre illuminato da una luce livida, si muovono i personaggi, insieme a gruppi di preti e suore, tutti rigorosamente vestiti di nero, compreso lo stesso Filippo II, che nella scena dell’autodafé indossa vestimenti papali con una tiara al posto della corona. Spiccano, in tanta cupezza, solo i candidi gigli che le damigelle-suore lasciano cadere durante la Canzone del Velo. I costumi – di foggia moderna – sono, dunque, abbondantemente attinti dall’abbigliamento ecclesiastico ufficiale, a sottolineare il potere totalizzante ed oppressivo della Chiesa, in uno spettacolo, che si caratterizza per alcuni suoi tratti shakespeariani: dal conflitto tra individuo e potere alla meditazione sulla caducità della vita. Nella prima scena dell’opera – nel Convento di San Giusto – il regista canadese ripropone il monologo di Amleto con don Carlo in meditazione, mentre contempla un teschio; lo stesso teschio che compare anche sul tavolo da lavoro del padre Filippo in scene successive. Si tratta di una messinscena indubbiamente coerente nel suo rigore, che ha una sua ragion d’essere nella ricerca di una drammaturgia anticonvenzionale. Qualche perplessità, invece, hanno suscitato certe forzature del libretto, seppur nel dichiarato intento di dare maggiore coerenza alla trama. Non ci riferiamo tanto al modo in cui Carsen interviene sull’effettivamente poco credibile lieto fine – il Frate-Carlo V, anziché il salvatore del nipote, si rivela un sicario dell’Inquisizione, freddando con un colpo di pistola sia Filippo che don Carlo – quanto sulla sua rivisitazione della figura di Rodrigo, trasformato in una bieca spia del Sant’Uffizio, che fa il doppio gioco, per sete di potere. Alla fine del terz’atto, si capisce che la sua uccisione è avvenuta per finta, visto che il presunto assassinato si rialza per stringere la mano al Grande Inquisitore, mentre nella scena conclusiva dell’opera lo si vede apparire con il capo cinto dalla corona regale. Peccato che tutto questo sia incompatibile con la musica: in vari momenti-chiave dell’opera ricorre, brillante di nobiltà, il tema dell’amicizia tra l’Infante di Spagna e il marchese di Posa … Comunque, lo spettacolo risulta coinvolgente e ben congegnato, nonché – a parte qualche timido accenno di dissenso finale, che non poteva essere rivolto che alla regia – gradito al pubblico. Sul versante musicale, la lettura di Chung, in linea con la visione di Carsen, ha sempre fortemente sottolineato la forza espressiva di quei passaggi in cui Verdi commenta con evidente partecipazione i diversi climi emotivi, che si succedono nell’opera, con il validissimo supporto dell’orchestra, che nel capolavoro verdiano assume un’importanza maggiore che in passato con il suo spessore sinfonico. Chung si rivela un vero mago, se si considera la sua estrema cura nel rendere la ricchezza timbrica dell’armonia, in cui si coglie l’influenza francese, mirabilmente coniugata alla più genuina potenza espressiva verdiana: una scrittura spesso piuttosto densa, che non ha impedito alle voci di imporsi, interagendo proficuamente con l’orchestra.Quanto al Cast, una particolare menzione merita il baritono Julian Kim (Rodrigo), che con una voce rotonda ed omogenea, una naturalezza nell’emissione, che si è imposta su ogni difficoltà tecnica, è stato forse il mattatore della serata, complice anche il particolare rilievo dato al personaggio da Carsen. Meno convincente – ma si tratta pur sempre di una prestazione ragguardevole per controllo della voce e fraseggio – il Filippo II del basso Alex Esposito, penalizzato da un timbro, che non ha quelle tonalità scure, atte a conferire un’aura regale al personaggio. Analogamente non abbastanza tenebroso e ieratico si è rivelato il Grande Inquisitore, offerto dal basso Marco Spotti, alle prese con una tessitura profonda, che non esclude affatto puntature acute. Autorevole è risultato il tenore Piero Pretti, che con timbro puro, ha reso virilmente le lacerazioni interiori come la passione politica dell’Infante di Spagna. Di rilievo la prova del soprano Maria Agresta, quale Elisabetta di Valois, che ha dominato la sua parte, dimostrando una tecnica sorvegliatissima, che le ha consentito di brillare nelle più violente accensioni drammatiche come nei momenti di più struggente lirismo, mostrandosi maestra nelle mezzevoci. Valida è risultata anche la prova del mezzo soprano Veronica Simeoni, anche se talora la sua voce non appariva dotata del peso necessario ad una parte di così intensa drammaticità. Più che dignitosi Il frate, austero, di Leonard Bernad, lo spumeggiante paggio Tebaldo di Barbara Massaro e la struggente Voce dal cielo di Gilda Fiume, oltre al nobile sestetto dei deputati fiamminghi. Pregevole la prova del coro istruito da Claudio Marino Moretti. Straordinario successo di pubblico per Chung e i cantanti. Foto Michele Crosera