Roma: il Belcanto risorge nei Capuleti e i Montecchi

Continua la stagione d’oro al Teatro dell’Opera di Roma. Dopo l’inaugurazione in dicembre con il Grand-Opéra di Giuseppe Verdi, “Les Vêpres siciliennes”, il direttore musicale Daniele Gatti ha proposto un capolavoro del belcanto “I Capuleti e i Montecchi”, tragedia lirica in due atti, su libretto di Felice Romani, composta da Vincenzo Bellini a ventott’anni, in poco più di un mese, nell’inverno 1830, e accolta “con furore” dal pubblico della Fenice di Venezia. È una delle prime opere di Bellini, la quarta per l’esattezza, che segue i trionfi di “Il pirata” e “La Straniera” e precede la “Sonnambula” e la “Norma”, e si ispira non tanto al teatro di Shakesperare quanto alla novella di Matteo Bandello. È un’opera che grazie al libretto di Romani, a detta del biografo di Bellini Andrea Della Corte, si regge su “un dramma rettilineo, senza divagazioni, conciso nei monologhi, nei dialoghi, nei cori, e già preciso nelle prime scene, procede nervoso e rapido verso la catastrofe”.

Gatti voleva tornare sui propri passi. Dirigendo i Capuleti ha esordito infatti a soli ventisette anni al Teatro comunale di Bologna. Trent’anni dopo, forte dell’esperienza sul repertorio romantico, l’ha voluto affrontare ex novo. E scavando nella partitura, lavorando sulle singole battute, sull’intonazione di uno strumento, di un accordo, di un cantante, sino a farne un cesello, Gatto ha operato per sottrazione, per cercare di spogliare l’opera di tutti gli orpelli e delle superfetazioni virtuosistiche, legati a una tradizione interpretativa ormai in gran parte perduta.

È noto, per esempio, che nelle partiture originali di Bellini, le “corone”, quei segni semicerchio col puntino sopra, detti anche “arbitri”, “fermate”, “mezze cadenze”, non indicano di tenere a lungo una nota come succede nelle partiture moderne, ma equivalgono al punto il cui il cantante deve inserire un vocalizzo di sua invenzione, tanta era  grande la libertà che il compositore accordava agli interpreti. Ora Gatti, nella sua rilettura, ha tenuto sotto controllo ogni nota, ogni singola croma, per esaltare il verso e la parola con l’accompagnamento dell’orchestra. E con grande maestria filologica ha voluto rivitalizzare le parti di recitativo, vero motore dell’opera, modellandole sui versi e sulle parole, più che sulla musica e sugli accordi dell’orchestra, e cercando di collegare un disegno melodico all’altro, sino a integrare alcune variazioni espressive, a riscrivere i daccapo senza mai snaturare la linea melodica principale.

Il risultato è rivoluzionario. A Roma abbiamo ascoltato un capolavoro del belcanto di Bellini come mai prima. Diretta da Gatti   Capuleti e Montecchi si rivela un’opera di una modernità sconvolgente. L’orchestra del Teatro Costanzi riesce a sottolineare ogni stato d’animo, che il belcanto affidati alle voci, più che all’introspezione psicologica come succede invece Verdi. Basta un accordo, un suono, una tinta, alcune variazioni, una cadenza nuova per esaltare la scrittura vocale di Bellini. Ma occorre il tocco e la sensibilità musicale di Gatti per riuscire a tradurne quei silenzi pieni di pathos, veri snodi del dramma, come succede per esempio alla fine della seconda parte, “istante tremendo” in cui Romeo irrompe nel palazzo in festa per le nozze di Giulietta e Tebaldo, e finisce per rivelare il suo intento davanti al rivale, all’amata, al padre di quest’ultima Capellio, e al frate Lorenzo, suo confidente. È un momento di teatro puro, dove con un manciata di battute metafisiche il dramma si concentra in un attimo e ogni cosa, pensieri, azioni, sentimenti, sembra restare in sospeso sino quasi alla rarefazione.

Precisa la scelta del regista Denis Krief, che firma anche le scene, i costumi e le luci. Lavorando all’unisono con Gatti per sottrazione, Krief ha trovato una perfetta corrispondenza all’estetica musicale. La sua è una regia minimale, severa, monda di surrogati come video e mimi, e invece aperta al vuoto, e all’”onnipotenza del vuoto che tutto può contenere”, come insegnano Okakuro Kazuko e i maestri del design del novecento. Non incombe mai né sugli attori né sulla musica, e quasi astratta si ritrae nella staticità del coro, nella classicità dei gesti dei cantanti, che vestono anodini abiti in stile novecento, con pistole e carabine al posto delle lance e delle spade medievali.

La scena è compressa dentro un cubo di legno, formato da due quinte laterali e da un fondale a grandi archi, che evocano i dipinti di De Chirico,  l’architettura del razionalismo italiano come quella del Colosseo quadrato di Ernesto Lapadula, o la geometria di una piazza o di un palazzo rinascimentale, con tende bianche leggere  mosse dal vento, per indicare terrazzi e balconi. Una seconda quinta cade dall’alto per segnalare lo spazio privato in cui Giulietta, alla vigilia delle nozze imposta dal padre con Tebaldo, si dimena girando in vestaglia intorno al manichino che indossa il suo abito da sposa. E un’altra quinta in legno più leggera scende dall’alto come una grata invalicabile  nel momento più struggente del dramma, quando il tenore e il mezzo soprano, e cioè i due rivali Tebaldo e Romeo pronti a sfidarsi in duello,  all’improvviso sentono da lontano un coro intonare un corteo funebre, e iniziano a  tentennare, si fermano, si aggrappano alla grata schiacciati dal presentimento, e quando sentono pronunciare il nome di Giulietta, sconvolti, rinunciano alla sfida, lasciando cadere le armi. È un altro momento di perfetta coincidenza tra la musica e la situazione drammatica, dove l’intensità dell’espressione è direttamente proporzionale all’economia di mezzi e ogni elemento, suono, canto, parole, sembra  restare in sospeso, sino a quasi rarefarsi per dar voce al silenzio dell’attesa, nell’annuncio della morte. Una scena di puro teatro in musica, ancora più struggente di quella finale della tomba, scena troppo reale e veristica, per evocare l’immaginario di un’anima in pena che forse delira, si uccide per amore, e mentre muore scopre che l’amata si risveglia dal filtro della finte morte, e torna in vita.

Perfette non solo nel duetto finale, ma per tutto lo spettacolo, il giovane mezzosoprano russo Vasilisa Berzhanskaya, che dopo aver cantato nella Cenerentola di Rossini la scorsa stagione, esordisce en travestie nel ruolo Romeo, secondo la tradizione belcantistica che non osava affidare ruoli sentimentali a un tenore o a un baritono, e risolve con  sicurezza un ruolo molto impegnativo, grazie alla magnifica tessitura e alla straordinaria capacità di mantenere il suono nelle zone gravi. Ottima l’interpretazione del soprano Mariangela Sicilia, che debutta come Giulietta, dopo aver interpretato sempre a Roma la primavera scorsa l’Euridice di Gluck. Bella prova del tenore peruviano Ivan Ayon Rivas nel ruolo di Tebaldo, del basso Alessio Cacciamani che recita la parte ingrata di Capellio, e ottima la prestazione dell’altro basso, Nicola Ulivieri nel ruolo di  Lorenzo, in abito talare.

Marina Valensise

La locandina

Direttore Daniele Gatti
Regia, scene, costumi, luci Denis Krief
Personaggi e interpreti:
Romeo Vasilisa Berzhanskaya
Giulietta Mariangela Sicilia
Tebaldo Iván Ayón Rivas
Lorenzo  Nicola Ulivieri
Capellio Alessio Cacciamani
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Maestro del coro Roberto Gabbiani

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