Benjamin o della fascinazione timbrica

Madrid: al Teatros de Canal l'operina da camera Into the Little hill

Into the Little Hill
Into the Little Hill
Recensione
classica
Teatros del Canal, Madrid
Into the Little Hill
11 Febbraio 2020 - 14 Febbraio 2020

Dopo aver programmato Written on Skin in forma di concerto, e in attesa di Lessons in Love and Violence prevista per l’anno prossimo, il Teatro Real di Madrid ha allestito, in collaborazione con Teatros del Canal, anche la prima delle tre opere nate dalla collaborazione tra il compositore George Benjamin e il drammaturgo Martin Crimp: Into the Little Hill, un’operina da camera, andata in scena per la prima volta nel 2006 e scritta per due cantanti, soprano e contralto, accompagnate da un’orchestra di quindici strumentisti.

Più propriamente, è definita dal compositore come racconto lirico («A lyric tale»), e infatti la vicenda del Pifferaio magico da cui il libretto è tratto è sviluppata tanto in modo narrativo, quanto teatrale, attraverso una costante commistione di ruoli per cui le due cantanti danno voce ai vari protagonisti della vicenda, ma allo stesso tempo la raccontano. Il senso di straniamento e la dimensione irreale sono aumentati anche dalla genericità dei protagonisti, che sono personificazioni senza volto (lo Straniero, ovvero l’equivalente del pifferaio, il Ministro, la Folla, e via dicendo) e dall’ambiguità della morale della favola. Il tono di fondo dell’opera è pertanto alquanto lugubre e alla fine i bambini attirati dallo Straniero, che non è stato ricompensato dal Ministro per aver liberato il paese dai topi, sono costretti a vivere sotterrati in una piccola collina e scavano sotto terra, contenti di servire questo loro nuovo padrone, che loro definiscono «un angelo». Il punto inquietante non è tanto nella metafora dei topi che rappresentano i diversi, immigrati o emarginati in genere, accusati con cinismo dalla politica di turbare la purezza della società, quanto piuttosto dal ruolo che la musica vi assume. Questa, infatti, non viene vista come mezzo di liberazione e rivelazione dell’umano, ma come un’arma doppiamente pericolosa e infida: nella prima parte è strumento di adescamento e manipolazione al servizio della politica, nella seconda strumento di oppressione e alienazione dei bambini ad opera del vendicativo pifferaio, giacché, come recitano le ultime linee del libretto, quanto più i bambini scavano quanto più «la sua musica arde splendente».

In assenza dunque di una chiara posizione morale, la musica di Benjamin si mantiene su un registro ambiguo e agisce per lo più per via timbrica (in orchestra ci sono strumenti poco ortodossi come cymbalon, banjo, mandolino, flauto in sol, clarinetto contrabbasso, cornette a pistoni), e oscilla tra la patina seducente della prima parte e i risvolti oscuri e misteriosi della seconda. La fascinazione timbrica è dunque l’asso nella manica del compositore e il punto di maggior interesse della partitura che raggiunge le sue vette negli interludi strumentali. Quanto al canto, Benjamin di fronte all’annoso dilemma dell’operista contemporaneo, non opta per un canto dilacerato ed espressionista,  ma  per un declamato anodino, che permette almeno di intendere per bene le parole. Più suggestioni quindi, che vere e proprie risposte compiute offrono i due autori, ai quali va riconosciuto il merito di essersi resi conto che con queste premesse il gioco non poteva durare più di tanto; e infatti l’opera si chiude molto appropriatamente dopo una quarantina di minuti (dieci minuti più in questo allestimento per via dell’aggiunta a mo’ di prologo di due bellissime Miniatures per violino solo, sempre di Benjamin). 

L’impostazione a metà tra l’oratorio e l’opera e il carattere allusivo della trama avrebbero forse giovato di un allestimento più minimale e meno esplicito di quella pensato da Marcos Morau, direttore della compagnia La Veronal. Chissà se il nome della compagnia deriva dal farmaco con cui nei gialli di Maigret le ricche e annoiate signore che abitano nel XVI arrondissement cercano, o fan finta, di farla finita; fatto è che l’effetto dell’invadente messa in scena sull’esile partitura di Benjamin è stato più o meno lo stesso. Le continue contorsioni di ballerini occhialuti che si muovevano e si sdoppiavano tra le librerie di un interno domestico arredato con mobili di design, hanno stroncato sul nascere le timide proposte della musica, riempiendo gli interstizi della nostra immaginazione di eccessivi stimoli visivi, per quanto, va riconosciuto, eseguiti con grande virtuosismo dai ballerini. Invece, la regia non si è discostata poi troppo dal testo identificando, par di capire, i ratti con gli intellettuali, o con la cultura in genere: veri e propri “topi da biblioteca” spodestati da mass media, internet e videogame, per cui i bambini invece di giocare con le costruzioni e i trenini di una volta finiscono imbambolati davanti a uno schermo. Ottima la prova dei solisti dell’orchestra del Real e delle cantanti Camille Merckx e Jenny Daviet guidati da Tim Murray, tutti molto attenti nel rispettare i delicati equilibri sonori e la raffinata trama di colori della partitura.

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