L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Scene di un amor perduto

 di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma, prima del forzato stop a sèguito dell’epidemia di Covid-19, riesce a finire tutte le recite dell’Evgenij Onegin di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Lo spettacolo è di quelli ben fatti, soprattutto perché sorretto da una regia sopraffina: la lettura di Robert Carsen è, al solito, pertinente al libretto, affascinante e coinvolgente, lavorando molto sul gesto di attori e coro e riducendo quasi al minimo l’apporto scenografico. La direzione di James Conlon risulta assai buona, soprattutto nei momenti di maggiore esaltazione del dato orchestrale e melodico; l’orchestra dell’Opera di Roma è in un’ottima serata. Fra i più applauditi di un cast mediamente buono ci sono la Tat’jana di Maria Bayankina, il Lenskij di Saimir Pirgu e il Gremin di John Relyea.

ROMA, 29 febbraio 2020 – L’ultima opera andata in scena al Costanzi prima dell’infausta chiusura dei teatri dovuta all’emergenza per l’incondizionata diffusione del temibile Covid-19 (meglio noto come ‘coronavirus’) è l’Evgenij Onegin di Čajkovskij, in un allestimento eccellente, quello della Canadian Opera Company, originariamente creato per il Metropolitan Opera di New York. Lo spettacolo firmato da Robert Carsen, infatti, risolleva decisamente la qualità di quelli visti finora nella stagione 2019/2020 del Costanzi: anzi, non penso di errare definendolo il più bello (almeno fino a questo momento) dell’intera stagione.

Robert Carsen non è solo un regista geniale – e ciò sarebbe, quasi, riduttivo; è un regista, soprattutto, che conosce assai bene il suo mestiere, che sa muovere i personaggi sulla scena; che sa creare situazioni e, conseguentemente, evocare emozioni. Tutto questo è ben presente in questa produzione, calibrata fin nei minimi particolari. Per parlare della regia, però, dovrò partire dalle scene a firma di Michael Levine. Si tratta, infatti, di scene per lo più vuote, giocate su un fondale chiaro e neutro, una sorta di tela, cioè, su cui dipingere. Le tre scene dell’atto I dimostrano perfettamente il modo di lavorare di Levine. Nella prima, lo scenografo ricopre completamente il palco di foglie autunnali, pone a distanze regolari altissimi fusti di alberi (di cui non si vedono le fronde), modula le luci su un colore ambrato: insomma, immerge lo spettatore in una sorta di quadro di Bruegel il Vecchio, un parco autunnale, dove i particolari sono dati dall’incredibile fattura dei costumi, tutti stupendi e tutti a firma di Levine. La scena della camera di Tat’jana è giocata sul principio di restringere l’area agibile del palco, per dare l’impressione di un ambiente ristretto. In questo caso, addirittura, la camera di Tat’jana è senza mura: lei e la sua balia si muovono, però, come se ci fossero e la presenza di luci soffuse, a evocare la notte, come pure della proiezione della luna conferiscono un’atmosfera onirica incredibile, considerando il fatto che il centro del palco, dove il poco mobilio indica la cameretta della ragazza, è suggestivamente circondato dalle foglie autunnali del parco della residenza di campagna. Tale espediente è utilizzato, pure, nella scena da ballo dell’inizio dell’atto II, dove tutti gli invitati si muovono a malapena, ristretti come sono al centro del palco; eppure questa tecnica dà, al contrario, l’impressione di una gran confusione e di una gran festa.

Scene intelligenti, talvolta ridotte al minimo ma sempre colorate dai costumi di fattura straordinaria e dalle trovate registiche di Carsen, vero nerbo dello spettacolo. Per esigenze di recensione ne citerò, inevitabilmente, solo alcune. Vero coup de théâtre è la scena del duello fra Onegin e Lenskij. Tutta la scena è giocata quasi al buio: velatino e luci fanno intuire solo le silhouette dei personaggi. Dopo la struggente aria di Lenskij, il duello si svolge in verticale rispetto allo sguardo del pubblico, con Onegin in basso; una volta partito il colpo, Lenskij cade a terra, in fondo al palco, e un sole sorge proprio nel punto in cui il poeta si accascia: l’aurora è come se accompagnasse l’ascesa dell’anima di Lenskij. Per suggerire movimento e ampliare notevolmente lo spazio percepito sul palco, Carsen fa muovere i personaggi facendoli uscire e rientrare dalle quinte, come pure facendoli girare in tondo sul palco; il tutto dà proprio l’impressione del movimento, come se in realtà i personaggi percorressero l’intero spazio (del giardino, per esempio nel I atto). Le scene liriche, pensate da Čajkovksij quasi come slegate fra loro, vengono raccordate da Carsen in apertura e chiusura di spettacolo dall’immagine di Onegin che legge, sconsolato, la lettera inviatagli da Tat’jana. Insomma, una regia intelligente e avvincente quella di Carsen, che presenta come meglio non si potrebbe la partitura di Čajkovksij.

Il teatro operistico di Čajkovskij è caratterizzato (come sa chi abbia visto Pikovaja Dama) da una scrittura densa, drammatica, meno orecchiabile della produzione ballettistica; da un’orchestrazione raffinata, da un melodiare che si può leggere persino nei singoli dialoghi dei personaggi ancorché nelle arie (non molte, per la verità) presenti nell’opera. James Conlon è attento a tutti questi particolari; fa cantare l’orchestra dell’Opera di Roma, imprimendo la giusta agogica e concedendo alle voci di librarsi sulla musica čajkovskijana, che qui, per la verità, si fa particolarmente drammatica. Momenti, però, dove una più distesa melodia si fa vedere ci sono e Conlon li esalta a dovere: si pensi al preludio iniziale, così ricco di incertezze quasi pudiche, dove gli archi sembrano far capolino sulla trama contrappuntistica; o al preludio e la brillantissima polacca che apre l’atto II, forse il pezzo più celebre dell’Onegin. Anche il coro del Costanzi dona una buona performance.

Il cast vocale è abbastanza buono, anche se pochi personaggi possono dirsi veramente centrati nel ruolo che cantano come Saimir Pirgu in quello di Vladimir Lenskij e John Relyea in quello del Principe Gremin. Per loro gli applausi finali sono calorosissimi. Pirgu canta con voce chiara, squillante, eppur lirica, soprattutto nelle frasi più amorose; l’aria dell’atto II, cantata impersonando bene un uomo in trepidante attesa del suo destino, coglie tutta la tavolozza delle cromature richieste da Čajkovskij. Così, pure, l’aria sola che canta Relyea nei panni di Gremin (atto III), che ricorda quelle dei bassi verdiani più lirici, riesce benissimo, soprattutto per il fatto che Relyea possiede una voce scultorea ma assai lirica, all’occorrenza. Maria Bayankina, dotata di una voce tersa, non molto potente né espressiva nei passaggi, ma comunque ragguardevole, canta una buona Tat’jana, anche se non coglie, forse, tutti i colori del personaggio. Lo si è visto, in particolare, nella famosa scena della lettera, dove il lungo arioso, che termina in un abbandono lirico di notevole spessore vocale, ha visto la Bayankina eccessivamente monocroma nei passaggi, ma apprezzabile nello slancio finale. Decisamente più convincente nel duetto finale con Onegin, dove Tat’jana deve sfoggiare un canto più maturo, dal quale trapela la tenerezza di un tempo. Applausi energici, comunque, accompagnano anche la sortita sul palco della Bayankina. Markus Werba coglie di Onegin soprattutto i colori. La sua voce, malleabile, duttile, brunita ancorché poco incisiva in alcuni momenti (almeno nel volume), sorregge la linea di canto del protagonista, che si fa intensa in taluni passaggi (come i duetti con Tat’jana), facendo uscire Werba da ciò che è consono alle sue qualità vocali. Un Onegin, dunque, molto lirico, ma meno drammatico di altri. Il ruolo della balia Filipp’evna è ben sorretto da Anna Viktorova, che si lascia apprezzare per una voce piena, rotonda e profonda. Così pure l’Ol’ga di Yulia Matochkina convince per l’essere a perfezione nella parte. I comprimari fanno un buon lavoro: Irida Dragoti (Larina), Andrii Ganchuk (Zareckij), Andrea Giovannini (Triquet) e Arturo Espinosa (Capitano della guardia).

In conclusione, questo Onegin è, forse, la prima opera che, nel complesso della stagione corrente del Costanzi, si lascia ricordare come riuscita sotto i vari punti di vista. L’ultima volta che il pubblico romano aveva potuto godere di questo capolavoro čajkovskijano fu nel 2001, quando a cantare Tat’jana c’era l’immortale Mirella Freni, celebre interprete di questo ruolo. Questa edizione dell’Onegin è, opportunamente, dedicata alla sua memoria.


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