Con ’Ottone in Villa riapre la Fenice

Parafrasando Mark Twain, viene da dire che la notizia dell’ennesima rinascita della Fenice è un po’ esagerata. Il teatro veneziano è rinato l’ultima volta 17 anni fa e in questo momento lotta insieme a noi, gli spettatori, per rendere un po’ meno dura la lunga traversata nel deserto costituita dall’emergenza-Coronavirus. Ma l’emergenza finirà solo quando ogni cosa tornerà com’era prima, inutile girarci intorno.

Tutto il resto sono encomiabili e doverosi sforzi gestionali, idee a volte brillanti e a volte meno, proposte inevitabilmente condizionate dalla situazione, generosi tentativi di indorare la pillola. Come appunto l’ingegnosa trovata comunicativa, che occhieggia anche dai manifesti in giro per Venezia, secondo cui la riapertura dopo il lungo blocco è la quarta vita della Fenice dopo la costruzione originaria a fine Settecento e le due riedificazioni seguite agli incendi dell’Ottocento e di fine Novecento.

La riapertura è un dato di fatto, la sua eccezionalità altrettanto. Come pure l’evidenza che la pur fascinosa soluzione escogitata dal sovrintendente Fortunato Ortombina e dai suoi collaboratori per riportare il pubblico dentro alla Fenice non può diventare stabile. A meno di non rinunciare all’idea di rappresentazione operistica finora corrente e di rovesciarla completamente. Tutto è possibile, beninteso, ma in quest’ultima ipotesi la strada sarebbe molto lunga e complicata.

Resta il fatto che venerdì sera, al cospetto di circa 320 irriducibili appassionati (qualche decina sotto il tetto massimo: non c’erano abbastanza “congiunti”), che si sono sottoposti, in mascherina, a scansione elettronica della temperatura prima di entrare, la Fenice è stata probabilmente il primo teatro a mettere in scena un’opera “al chiuso”.

Per farlo, è stata scelta una soluzione “di base” che appare abbastanza comune in questa fase alle ipotesi di lavoro di molti teatri tradizionali italiani, quella di escludere il pubblico dalla platea, riservando quello spazio agli esecutori musicali, che in tal modo possono essere convenientemente distanziati, ben diversamente dalle anguste “buche” d’orchestra. L’originalità della scelta compiuta a Venezia sta nel fatto che il palcoscenico non è rimasto alla sua funzione originale di luogo dove avviene lo spettacolo, ma grazie a una suggestiva “installazione” lignea a mo’ di chiglia di barca in costruzione si è a sua volta trasformato in piccola platea. E dunque, pubblico nei palchi e in loggione, pubblico sul palcoscenico, a costruire un gioco di rispecchiamento che non sarà originale ma è concreto molto più di qualsiasi invenzione registica (viene in mente la famosa Traviata di Svoboda, nella quale questo effetto veniva costruito appunto con gli specchi piazzati a fondo scena). In mezzo, un vasto “open space” per fare musica e spettacolo, quello comprendente l’intera platea e un piano inclinato di raccordo con la scena.

Così ridisegnato, il teatro ha un indubbio fascino spaziale. Scultoreo e in certo modo architettonico. Ma all’apparir del vero, cioè della pratica di una rappresentazione operistica, questo nuovo spazio ha mostrato di essere quanto meno problematico. Perché di fatto in questa disposizione la scena ha due fronti, uno per i palchi (molto simile a quello tradizionale) e l’altro per chi sta seduto dove prima c’era il palcoscenico. Questa duplicità può essere in qualche modo attenuata dalla regia, ma sul piano musicale appare difficilmente risolvibile. L’altra sera, i pur pochi cantanti di un’opera “piccola” come Ottone in villa di Antonio Vivaldi si sono praticamente sempre trovati a dover dare le spalle a una parte più o meno consistente del pubblico, con evidenti effetti sul suono, sul suo colore e sull’acustica stessa. Oltre che sulla rappresentazione in quanto fatto scenico, evidentemente. Il discorso riguarda il rapporto fra le parti: per chi ascolta, voci in primo piano e strumentale sullo sfondo o viceversa, a seconda della posizione. Comunque la sia pensi, qualcosa di molto diverse dalle consuetudini di ascolto e di visione degli ultimi trecento anni circa, da quando cioè proprio Venezia ha inventato i teatri d’opera aperti al pubblico.

Lo spettacolo potrebbe essere appropriatamente definito secondo la terminologia francese “mise en éspace”: qualcosa di più di una rappresentazione semi-scenica, molto meno di un vero allestimento. La regia di Giovanni Di Cicco ha lavorato su gesti e movimenti (distanziati senza che la cosa apparisse innaturale), trovando buona sponda nella esilità (leggi: assenza) drammaturgica del libretto di Domenico Lalli: una serie di una trentina di Arie – una per scena – ciascuna preceduta dal suo recitativo. A dispetto del titolo, il protagonista vero non è l’imperatore romano Ottone ma la vivace (diciamo così) Cleonilla, che tiene i piedi in tre staffe (una è quella imperiale), confermando fin dall’inizio che la scarsa reputazione “morale” di cui gode nella capitale è piuttosto giustificata. Ottone si arrabbia ma è disposto a farsi raccontare qualsiasi storia. Francamente umoristico il lieto fine di prammatica, quando si scopre che l’ultimo oggetto del desiderio di Cleonilla è – come tutti gli spettatori sanno dall’inizio – una donna travestita da uomo. Il che basta a rabbonire il sovrano.

La locandina riporta la firma di Massimo Cecchetto per le scene, che non sapremmo dire quali siano, a meno di non considerare l’insieme dell’installazione lignea. Deplorevoli, tranne quelli di Cleonilla (l’unica ad averne più d’uno), i costumi “attualizzati” di Carlos Tieppo, fra scarpe ultralucide e cupe grisaglie a doppio petto.

Lo specialista Diego Fasolis ha diretto con grande energia e forte smalto ritmico l’orchestra della Fenice a ranghi più che ridotti. Gli strumenti non erano originali e il suono era dunque più estroverso di quanto non sia ormai d’uso, il fraseggio sorvegliato e ben articolato, le dinamiche adeguatamente caratterizzate. Evidente la sottolineatura del carattere tipicamente vivaldiano delle Arie, che sul piano strumentale fin da questa prima prova operistica del “prete rosso”, portata al debutto a Vicenza nel 1713, “riproducono” le strutture e i modi espressivi già propri dei Concerti.

La compagnia di canto era costituita da cinque raffinati specialisti del canto barocco, tutti apprezzabili per duttilità nella linea di canto secondo la varia tavolozza degli “affetti”, precisione nei passaggi belcantistici di agilità, eleganza in quelli più inclini al patetico. Una brillante Giulia Semenzato ha dato voce al ruolo preponderante di Cleonilla (una sua Aria è l’unico taglio deciso da Fasolis, oltre ad alcuni recitativi); intorno a lei, Sonia Prina era un irruente Ottone, Lucia Cirillo l’appassionato “giovane bellissimo” Caio Silio, Michela Antenucci la seducente dama travestita da uomo, Tullia, e Valentino Buzza il consigliere dell’imperatore, Decio.

Per tutti, successo assai vivo. Tre le repliche in programma, il 12, 14 e 15 luglio.

Cesare Galla
(10 luglio 2020)

La locandina

Direttore Diego Fasolis
Regia Giovanni Di Cicco
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Luci Fabio Barettin
Personaggi e interpreti:
Cleonilla Giulia Semenzato
Ottone Sonia Prina
Caio Silio Lucia Cirillo
Decio Valentino Buzza
Tullia Michela Antenucci
Orchestra del Teatro La Fenice

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