“Norma” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2020-2021
“NORMA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani basata su Norma, ou l’infanticide di Alexandre Soumet
Musica Vincenzo Bellini
Norma  HIBLA GERZMAVA
Pollione  JOHN OSBORN
Oroveso  FERNANDO RADÓ
Adalgisa  ANNALISA STROPPA
Flavio  JUAN ANTONIO SANABRIA
Clotilde  BERNA PERLES
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore  Marco Armiliato

Maestro del coro  Andrés Máspero
Regia  Justin Way
Scene  Charles Edwards
Costumi  Sue Willmington
Luci  Nicolás Fischtel
Nuova produzione del Teatro Real de Madrid
Madrid, 17 marzo 2021
Nell’ottobre del 2016 fu proposta a Madrid una nuova produzione di Norma, patrocinata dal Teatro Real e in coproduzione con ABAO Bilbao e Palau de les Arts di Valencia (erano gli anni della gestione di Davide Livermore, che firmava appunto la regia). A distanza di neppure cinque anni, ecco una nuova produzione, interamente a carico del maggior teatro della capitale. Pur non essendo percepita come necessaria o, tanto meno, urgente, la nuova Norma è uno spettacolo interessante e, a ben guardare, originale, a dispetto dell’apparente convenzionalità. L’occasione si deve forse al fatto che il regista australiano Justin Way è il Direttore di produzione del Teatro Real. Anche sul piano musicale, comunque, questa Norma riscuote l’apprezzamento del pubblico madrileno, che esaurisce sempre la capienza del teatro in tutte le recite (ne sono previste dodici, con due compagnie vocali). La disposizione degli orchestrali, che si ritrovano molto distanziati tra di loro per le solite ragioni, favorisce il dispiegarsi di un suono ampio e armonico, a differenza di quanto accaduto con il Siegfried di qualche settimana prima. La fossa si protende verso la platea, proprio come accadeva nei teatri italiani del primo Ottocento, smangiando le prime file delle poltrone; manca soltanto il “grembiule” del palcoscenico per ricreare quell’effetto, che in una sala piccola e quasi circolare come quella del Real sarebbe delizioso. Ancora rispetto al precedente titolo wagneriano, l’Orquesta del Real diretta da Marco Armiliato si sente sicuramente più a suo agio con Bellini. Fortunatamente, il direttore non si limita a compiacersi della successione melodica e belcantista, ma mette in evidenza i disegni asimmetrici e il nervosismo sempre latente della partitura di Norma, in particolare negli ottoni e nei fiati; l’effetto complessivo è molto pregevole e trascinante (e non solo nei momenti sinfonici, tra cui spicca per intensità il preludio al II atto). Anche la prestazione della banda sul palco è molto buona. Hibla Gerzmava si impose all’attenzione del pubblico italiano con una tempestosa Anna Bolena scaligera dell’aprile 2017. Da allora, la cantante ha migliorato la qualità delle sue interpretazioni, concentrandosi soprattutto nel repertorio belliniano e donizettiano: ha voce vibrante, abbastanza solida, molto precisa negli attacchi (quello di «Casta diva» è perfetto), anche se poi sopravviene una certa fretta di voler concludere i passaggi più impegnativi. È interessante il timbro elegiaco, mentre l’emissione non sempre è sufficientemente appoggiata. In ogni caso, Gerzmava punta sulla caratterizzazione della dignità di Norma, curandosi meno dell’aspetto virtuosistico o meramente canoro (poche le corone, al risparmio gli acuti: una scelta – o forse una condizione – antidivistica). Nei recitativi il soprano è autentico e molto comunicativo, mentre nei passaggi cruciali del belcanto vuole sempre arrotondare il suono di ogni nota, creando un effetto vocale curioso, come anticheggiante. Molto corretta l’Adalgisa di Annalisa Stroppa, sicura nelle messe di voce ma un po’ debole nelle note basse (l’eterno problema della tessitura del secondo soprano di Norma). Il momento meglio riuscito è il doppio duetto con la protagonista, anche per il buon contrasto tra le due voci femminili. John Osborn è un Pollione di prima grandezza, oltretutto veterano della parte, sebbene esegua «Meco all’altar di Venere» con una certa cautela, come trattenuto; riacquista in seguito la sicurezza, apprezzabile anche nella dizione italiana accurata e nel porgere carezzevole: quando assume la parte del seduttore, poi, si risente tutta l’eredità vocale rossiniana. L’Oroveso di Fernando Radò ha voce chiara ma velata nell’emissione acuta, spesso coperta dalle sonorità orchestrali (altre volte penalizzata da piccole cadute dell’intonazione). Un po’ impacciato il Flavio di Juan Antonio Sanabria. Un sipario istoriato con scene rinascimentali, dallo stile che guarda tanto a Veronese quanto a Tiepolo, apre sul teatro nel teatro, con tanto di spaccato laterale di palchetti e lampioncini. A tutta prima, lo spettacolo si sorregge su di un’unica struttura, quella meta-teatrale, e un’unica estetica, quella cinematografico-hollywoodiana. All’inizio, per di più, tutto sembra una parodia, ma poi, poco a poco, il dramma assume le sembianze di un’autentica tragedia politica e amorosa. Quali spettatori, i romani sono ufficiali dell’esercito austriaco nella caratteristica ed elegante uniforme che assistono a una rappresentazione di Norma, in cui i druidi sono abbigliati con lunghe tuniche e ancor più lunghe e ridicole barbe posticce: se il gusto dei loro costumi ricorda immediatamente Quo vadis?, la memoria (tele)visiva suscitata dall’incontro di Pollione e Norma corre agli episodi di Sissi (o, in caso di ricordanze più raffinate, a Senso di Visconti). Sul piano dell’attualizzazione politica, la trasposizione delle nazionalità celtica e romana all’epoca della prima di Norma, dunque all’opposizione risorgimentale austro-italiana, sarebbe sensata (ma niente affatto nuova) nei teatri della penisola, mentre a Madrid tutto il contesto rischia di sfuggire alla percezione del pubblico (almeno se non si legge l’avvertenza del regista all’interno del programma di sala). Quando la scena druidica è finita, l’ambientazione si sposta dietro le quinte, tra guardaroba e sottoscala, dove Norma vive insieme ai suoi figli; il suo scrittoio sembra quello di un professore di liceo dell’Ottocento, e serve evidentemente ad accentuare quella dignità del personaggio che nelle scene intime non viene mai meno (grazie all’impostazione dell’interprete, va detto). Nel finale I gli inservienti del teatro scoprono “l’austriaco” Pollione) che insidia le “donne italiche” (Attila docet) e lo mettono alla porta in malo modo. Nel corso del II atto si assiste a una ricomposizione organica dell’idea registica, perché alla fine, dopo vari cambi di costume, l’identità druidica e quella italiana si è totalmente sovrapposta, al pari di quella romano-austriaca. Tutto ciò accompagna plausibilmente l’inaspettata ricomposizione di passioni opposte che il finale dell’opera racchiude, ovviamente in un rogo mortifero: «Un nume, un fato di te più forte | ci vuole uniti in vita e in morte».   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid