Napoli: Violetta o Velina?

E fu così che, anche a Napoli, si ebbe Il ritorno a Teatro dopo l’ulteriore e non necessaria tranche di mesi votati alla “contemplazione digitale forzata dei prodotti culturali”. Prodotti, sì… solo quello sono adesso le Arti performative e non: si generano da sole e non contemplano più l’idea umana, il lavoro umano, l’attitudine umana e, sempre più ultima, la dignità umana. 

Infatti, in Italia parlare di Arte è oggi e in generale poco chic, poco necessario ma, tutto sommato, ci fa ancora “tanto divertire”: nel Paese che, nei secoli, ha maturato il riferimento per il Mondo rispetto al concetto di Bellezza, oggi si preferisce misurare tutto ciò in relazione alla risultante (imperfettissima, seppur rappresentabile su piano cartesiano) prodotta dal business plan dell’I.N.P.S. con buona partecipazione involutiva data dai pensieri travio-comici dei rappresentanti parlamentari che, fin troppo zelantemente, si traducono con patriottica ragione in azioni restrittive e lesive a firma dei funzionari ministeriali. 

Il ritorno a Teatro ha avuto ancora una volta un effetto di certa enfasi rispetto all’inondazione mediatica di prosopopea e proseliti… meno ha fatto, in alcuni casi quasi nulla, rispetto ad una “nuova” presentazione del valore produttivo che il nostro Paese possiede da diversi secoli e che fa capo ad una macchina complessa come è quella del Teatro (musicale e non). Non ha fatto eccezione nella lista dei buoni propositi attesi nelle dimostrazioni e alquanto disattesi nei risultati la seconda Recita de “La Traviata” di Giuseppe Verdi andata in Scena sabato 15 maggio presso il Teatro di San Carlo in Napoli. Dicevamo come molte fossero le attese per il ritorno allo spettacolo DAL VIVO e, a tal proposito, vale appena la pena ricordare come la realizzazione DAL VIVO sia l’unica forma totalmente compiuta tra le possibili realizzazioni di Opere, Balletti, Monologhi, Recite et cetera che debba ritenersi come riferimento per il Settore dello Spettacolo in senso generale. Non solo per un fatto di principio ma, più banalmente, perché la possibilità di cogliere gli elementi “umani” delle diverse produzioni non può che avvenire esclusivamente “dal vivo”. 

Riferire di questa produzione napoletana non è impresa semplice. Da un lato il desiderio di comunicare il ritorno alle Scene con la giusta enfasi, dall’altro il disappunto malcelato durante lo spettacolo per tante, troppe, imprecisioni di realizzazione a vario titolo. Cominciando dall’Allestimento si dovrà dire che c’è modo e modo di presentare in tempo di Covid delle produzioni di “semi-concerto” (parlare di produzioni semi-sceniche è azzardato) ma, non potendo venir meno a questo vincolo per ovvie ragioni di sicurezza, si impone l’obbligo di prestare massima attenzione a dettagli scenografici e spaziali che con assoluto rigore vanno presentati in risalto e non certo lasciati all’improvvisazione. Fanno da esempio sotto questo profilo tre elementi: il costume di Violetta (un Capucci di Straussiana memoria che, seppur bellissimo nella sua degradazione di rosso e arancio, essendo l’unico costume riconoscibile “a vista” per il pubblico avrebbe potuto essere omesso dall’elenco dei ricicli e sarebbe potuto essere commissionato ex novo, ad esempio, a qualche giovane stilista partenopeo… che tanti e bravissimi ce ne sono!); le sedie del Coro (a dir poco osceno il fatto di averle presentate nella loro forma normale senza provvedere ad una scenografatura adeguata quando il disegno luci e, quindi, la rappresentazione dell’azione drammaturgica, ne prevedevano la vista); il vaso con le Camelie (ammesso per Covid che fosse posizionato ad una eccessiva distanza dalla seduta di Violetta e dalle mani di Alfredo che, per coglierne una ha dovuto circumnavigare la Papuasia; davvero triste e senza giustificazione che lo stesso vaso fosse poggiato su un comodino di quart’ordine e che contenesse fiori finti… “poco e buono” si diceva un tempo… non ci vuole poi così tanto!). Di contraltare, va detto che il lavoro registico di Marina Bianchi sia stato efficace ed efficiente per le possibilità realizzabili secondo le Normative vigenti e che, anzi, abbia saputo mitigare, attraverso una organizzazione spaziale pulita ed intelligente, quella veemenza scenica spesso fuori luogo che caratterizzava molti tra quelli in Scena. “La Traviata” è lavoro apparentemente semplice ma arduo e pericoloso da realizzare: tutti ne conoscono i numeri principali e secondari, ed è facilissimo scadere nella banalità o in un gusto quantomeno discutibile. Così è stato per la lettura interpretativa di entrambi i protagonisti. Ailyn Pérez ha proposto una visione di Violetta che molto aveva dei drammi esistenziali narrati nelle più note telenovelas latine, in particolare “Un amore eterno”: ingresso in Scena che ricordava lo smarrimento di una giovane dispersa nelle Pampas; atteggiamento mimico-facciale sempre caricato, ai limiti del caricaturale, tanto da risultare palese la finzione (financo durante la chiamata alla Ribalta); pugni letteralmente sbattuti sul pianale della dormeuse dopo “Addio, del passato” (perché?!)… questi ed altri sono stati dei momenti di puro trash, quasi irripetibile, sciorinati durante tutto l’arco della rappresentazione. Il tutto attraverso una vocalità importante ed estremamente interessante ma che risulterebbe perfetta per ben altri Repertori, Repertori ben più in avanti a livello temporale: seppur efficace nella resa tecnica, questa Violetta poco ha a che vedere dal punto di vista squisitamente musicale e stilistico con un ruolo che è a tutti gli effetti una sintesi di quanto ben spiegato dalle eroine del Belcanto… tutto ciò detto senza volersi ulteriormente soffermare sulla pronuncia della lingua italiana spesso carente o poco chiara e, dulcis in fundo, sul mancato Mi bemolle di tradizione che è stato la ciliegina sulla torta di un Numero musicalmente poco edificante che già al secondo “è strano” aveva mostrato delle perplessità difettando palesemente nell’attacco. Per quanto concerne l’interpretazione di Ivan Magrì è opportuno sottolineare come la sua tenuta sia stata continua ed omogenea per tutto il corso della Recita, con particolare positivo rilievo per “Un dì felice, eterea”; se di felice tenuta si deve parlare tutt’altra impressione ha suscitato questo Alfredo sotto il profilo musicale: il timbro naturale del cantante non è sicuramente tra quelli che brillano in bellezza ma ciò non sarebbe un grande problema se la gestione dello stesso avvenisse senza le continue e non richieste “prove di forza” e, non di meno, se la sua presenza scenica fosse adeguata al ruolo senza limitarsi ad andar su e giù quando l’obbligata semplicità del disegno registico lo impone per poi perdere ogni enfasi di presenza durante i diversi e complicati attimi in cui la Scena è per sua natura statica e sarebbe tutta da lui a conquistarsi. In ogni caso, rispetto a quanto rilevato prima, la prova è portata a casa genuinamente nella sua totalità.

La terza parte di questa vicenda, come ben sappiamo, è incarnata da quel padre d’Alfredo che ha trovato in George Gagnidze un Giorgio Germont interpretato in maniera significativa. Anche qui l’appunto non è diretto all’artista in sé ma alla formulazione del Cast: il timbro naturale di Gagnidze poco ha del baritono “pater familias” che il ruolo richiederebbe; seppur minori sono gli appunti che possono a lui farsi rispetto agli altri due già analizzati, bisogna segnalare come anch’egli soffra di difetti sparsi per quanto concerne la pronuncia esatta della lingua italiana (eclatante, ad esempio, l’attacco di “Di Provenza” che diviene “Di POVEZA”) e che abbia una tendenza ad uno stile di condotta della linea di canto molto elegante ma che, per natura del timbro stesso, non arriva a generare il richiesto risultato “di peso”… questo aspetto, in particolare, rileva come la prova sia stata ben studiata e portata a casa ma che, francamente, sarebbe opportuno ascoltarlo con sicura soddisfazione in altri ruoli. Poco da dire sugli altri in campo: interessante timbro Flora anche se anche qui si rileva una concezione troppo caricata del personaggio (agli inchini il pugnetto sul cuore in modalità “D’Urso” ha confermato questa rilevazione); accettabile Annina che inizia “ni” e termina “in asse”; bel timbro e voce da risentire in altri ruoli e con maggior riguardo quella di Enrico Di Geronimo che qui era Il dottor Grenvil. Per quanto concerne il Coro è doveroso segnalare una bella prova della compagine napoletana che da qualche settimana si avvale della bella guida di José Luis Basso. La positiva prova del Coro si sposa perfettamente con il giusto successo tributato al Direttore Karel Mark Chichon (prima volta al Teatro di San Carlo); la sua lettura interpretativa ricerca un puntuale scavo della Partitura che riesce nelle intenzioni specialmente nei Duetti che, tra l’altro, non sono certo di facile concertazione; interessanti e curate le sonorità emerse dall’Orchestra del Massimo napoletano anche in passaggi di semplice accompagnamento (molto bene la sezione degli Archi) seppur non sia mancato qualche “fiato” di troppo. A corollario della riapertura napoletana, oltre alle perplessità ben spiegate riguardo questa composizione di Cast e l’approssimazione poco professionale dell’Allestimento, si è stagliata pure una vicenda alquanto shockante che, per dovere di cronaca e necessità di chiarimento data la gravità assoluta del fatto descritto, non può essere da noi omessa.

Il fatto increscioso è riportato dalle colonne del quotidiano “Corriere del Mezzogiorno” del 16 maggio 2021 nella rubrica Il Commento a firma di Francesco Canessa (già Sovrintendente del Teatro di San Carlo) ove si legge «Nel su indicato clima di “ammuina”* e per evitare i rischi d’una qualche recensione negativa alla sua Traviata, il sovrintendente s’è inventato una novità: ha inviato ai giornali una “velina” con un articolo di critica già bello e scritto a firma di un autorevole musicologo, al presente capo della Comunicazione del Teatro stesso. Iniziativa mai presa, almeno nel settore, manco al tempo del Minculpop di Alessandro Pavolini, che pure nel mondo dell’opera aveva interessi, essendo legato alla battagliera Gianna Pederzini, cantante di punta in epoca fascista. Velina cestinata da questo giornale e mi auguro anche dagli altri. Nei contenuti, prima dei prevedibili elogi, si ribadisce l’affermazione del Sovrintendente che per la riapertura “non sarebbe stato possibile” predisporre uno spettacolo scenico completo nei pochi giorni a disposizione”. Altri teatri del “sistema musica” italiano e straniero ne hanno predisposti e attuati molti addirittura prima, tra le strette del lockdown. Come mai nel suo Teatro, con eguale personale e adeguate sovvenzioni, non è stato possibile farne manco uno, né prima né dopo? Monsieur Lissner e il suo capo della Comunicazione dovrebbero spiegarlo nella prossima velina.”».

*Ammuina è termine che può essere agilmente tradotto con altri quali confusione, bagarre, piccolo sollevamento di piazza… rispetto a quanto visto e a quanto letto sicuramente è un termine adeguato per descrivere il clima della riapertura napoletana con annessi e connessi all’Opera: confusione musicale tanta, bagarre mediatica indiretta pure, sollevamento di piazza avvenuto ma in senso positivo e giustificato dall’entusiasmo per la riapertura che, di contraltare, meriterebbe una attenzione maggiore e, pourquoi pas, anche una più edificante dimostrazione di generale competenza che esuli dal mero incremento percentuale delle quote stipendiali dirigenziali in tempo di Covid. 

Antonio Smaldone
(15 maggio 2021)

La locandina

Direttore Karel Mark Chichon
Regia Marina Bianchi
Personaggi e interpreti
Violetta Valery Ailyn Pèrez
Flora Bervoix Mariangela Marini
Annina Michela Petrino
Alfredo Germont Ivan Magrì
Giorgio Germont George Gagnidze
Gastone Lorenzo Izzo
Il barone Douphol Nicolò Ceriani
Il marchese d’Obigny Donato Di Gioia
Il dottor Grenvil Enrico Di Geronimo
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Maestro del Coro José Luis Basso

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