“Il Trovatore” inaugura la stagione al Circo Massimo a Roma

 

Teatro dell’Opera di Roma, Circo Massimo 2021
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti su libretto di Salvatore Cammarano, Tratto dall’omonimo dramma spagnolo di Antonio Garcia Gutierrez.
Musica di Giuseppe Verdi
Il  Conte di Luna  CHRISTOPHER MALTMAN
Leonora  ROBERTA MANTEGNA**
Azucena  CLEMENTINE MARGAINE
Manrico  FABIO SARTORI
Ferrando MARCO SPOTTI
Ines MARIANNA MAPPA*
Ruiz   DOMINGO PELLICOLA*
Un vecchio Zingaro LEO PAUL CHIAROT
Il messo MICHAEL ALFONSI
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
** diplomata progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Drettore Daniele Gatti
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Lorenzo Mariani
Scene e Costumi William Orlandi
Luci Vinicio Cheli
Video Fabio Massimo Iaquone, Luca Attili
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 15 giugno 2021
Lodevole la scelta del Teatro di un titolo come il Trovatore di Giuseppe Verdi, noto, molto amato dal pubblico e strutturalmente adatto ad una serata inaugurale della stagione all’aperto, anche quest’anno trasposta al Circo Massimo a causa delle restrizioni dovute alla pandemia del Covid che sebbene si speri in via di miglioramento per certo non può dirsi ancora superata. L’organizzazione della serata che si è svolta alla presenza delle più alte cariche dello Stato può dirsi ineccepibile per quanto ha riguardato le regole di distanziamento, la facilità nei percorsi e la cortesia del personale del teatro che hanno consentito di evitare assembramenti senza creare disagio nel pubblico o turbare il clima dell’occasione. Anche la regia affidata a Lorenzo Mariani era saggiamente concepita in modo tale da evitare contatti troppo ravvicinati tra gli interpreti o gli artisti del Coro. La vicenda viene ambientata in un tempo indefinito con una scenografia che prescinde totalmente dal contesto archeologico e prospettico del palcoscenico naturale nel quale è immersa ed è composta da un piano inclinato a gradoni, nero come il carbone sullo sfondo del quale vengono proiettati su uno schermo lampi, bagliori, fiamme, il cielo, una luna sempre grigia con il risultato di rafforzare la monotonia cromatica scelta e talvolta francamente distraente rispetto alla studiata sapiente efficacia di alcuni effetti scenici della partitura verdiana come l’improvviso e inatteso ingresso di Manrico nel finale secondo. In tutto ciò vengono spostati di atto in atto quattro grandi tavolini in stile Ikea, due dei quali neri per il palazzo reale di Aliaferia e due bianchi per il capo degli zingari che forse vorrebbero suggerire che questi ultimi siano più ameni e leggeri  rispetto alla corte aragonese, insieme ad un  numero imprecisato di sgabelli dello stesso stile sempre alternativamente bianchi e neri e disposti spesso in modo geometrico un po’ per le citate esigenze di distanziamento e un po’ forse con un intento simbolico ma di non facile decifrazione. Anche i costumi erano tutti rigorosamente neri tranne quello di Azucena ovviamente rosso, i berretti rossi degli zingari e qualche fascia una bianca per il Conte di Luna ed una rossa per Manrico che diluivano un po’ la sostanziale cupezza dell’insieme e ravvivavano il cappottone d’occasione buono per ogni stagione e per ogni ora del giorno. La presenza della fiamma cosi tanto ricordata nelle parole del testo sia per la drammatica vicenda che narra sia anche per l’intenso modo di descrivere sentimenti di così grande forza è rappresentata da alcuni grandi candelieri a cinque fiamme che alternativamente tutti i personaggi, anche gli zingari in modo politically correct, recano in mano, spostano, indicano e appoggiano qui e là.  La direzione dello spettacolo è stata affidata al maestro Daniele Gatti che con questo titolo completa l’esecuzione della trilogia popolare verdiana presso l’Opera di Roma. Premesso che è molto difficile apprezzare timbrica, colori, voci e sonorità all’aperto tra episodiche sirene di ambulanze e l’amplificazione che sebbene fosse di buona qualità omogeneizza sempre il suono e ne vizia la sua direzionalità, sfugge la complessiva concezione di questo Trovatore. Momenti di attesa che preparano fuochi d’artificio accesi per metà, raffinatezze belcantistiche di sapore donizettiano intercalate a clangori quarantotteschi, tolti i cosiddetti “brutti acuti” della tradizione compresi i Do della pira, ma cabalette rifatte con il da capo e qualche timida variazione per altro gradevole, con il risultato di una esecuzione anche caratterizzata da bei momenti ma che nel complesso è risultata a corrente alternata e nella quale è parso faticoso scorgere una architettura di insieme e in alcuni momenti una fusione spontanea dell’orchestra con le voci. Discreta la prova del coro diretto dal maestro Roberto Gabbiani del quale però probabilmente per cause tecniche legate al distanziamento ed alla amplificazione non sempre è stato possibile apprezzare la consueta precisione di intonazione e l’omogeneità timbrica.  E veniamo agli interpreti di questa importante serata, piena di belle aspettative in gran parte non disattese. Fabio Sartori, Manrico, a dispetto di una fisicità non agevole ha trovato vocalmente convincenti accenti espressivi sul versante eroico nonostante l’eliminazione degli acuti, grazie al buono squillo del timbro ed alla sicurezza dell’emissione. La magia del teatro in musica è quel mistero inspiegabile per il quale una signora francamente obesa può morire in scena di consunzione commuovendo il pubblico o un’altra oggettivamente non bella può esser ricordata come “La Stupenda”. Ma è stato soprattutto nel rendere il lato amoroso del personaggio che il tenore ha dato il meglio di sé, in particolare nell’aria del III atto e poi nel duetto e nel finale del IV. Roberta Mantegna ha tratteggiato una Leonora giovane, innamorata e decisa con una voce stupefacente per omogeneità, eleganza e varietà del fraseggio, agilità impeccabili ed il colore notturno della luna nel timbro. Il soprano, vanto del progetto “Fabbrica” del teatro, ha offerto una bella esecuzione di entrambe le attese arie, un intenso ed particolarmente espressivo finale secondo ed è apparso assai commovente nel finale. Ottima pure l’Azucena interpretata da Clémentine Margaine la quale non sempre aiutata dalla regia e condotta in scena nel terzo atto da due gomene da rimorchiatore è riuscita a rendere la complessa drammaticità del proprio personaggio con eccellente musicalità, intensa partecipazione e autorevolezza vocale senza mai cedere a eccessi o sbavature stilistiche di sorta. Meno interessante è parsa l’interpretazione del Conte di Luna offerta dal baritono Christopher Maltman un po’ troppo monocorde sul versante espressivo e musicale e tale, non per sua responsabilità, da apparire in scena più anziano di Ferrando, quest’ultimo impersonato in modo solo corretto da Marco Spotti. Convincente è sembrata Marianna Mappa nel ruolo di Ines e funzionali gli altri interpreti delle parti di fianco. Alla fine lunghi e sinceri applausi per tutti da parte del pubblico anche se l’importanza del titolo, tanto per rimanere in tema di pire, avrebbe fatto sperare di accendere qualche entusiasmo in più. Foto Fabrizio Sansoni