MACERATA. In attesa che l’Onu o l’Unesco o la Ue o Draghi decretino una moratoria con il divieto di metterla in scena per, diciamo, almeno cinque anni, allo Sferisterio di Macerata si è rivista l’ennesima Traviata (per il soprascritto era, dal vivo, la quarantaduesima). Nella stagione del centenario dell’opera in loco, non poteva mancare la celebre produzione “degli specchi” firmata da Josef Svoboda, quella con l’enorme specchio a parete che riflette i tappeti sulla scena che diventano così scenografia: inutile descriverla, l’hanno vista tutti nelle sue innumerevoli riprese.

Il problema è che, nonostante in Italia si insista nel confonderle, per fare uno spettacolo la scenografia non basta, ci vuole anche una regia. E qui troppo spesso non si capisce dove Henning Brockhaus voglia andare a parare. Dissemina lo spettacolo di segni che restano criptici, non spiegati, senza seguito. Perché Annina ha in testa un’assurda parrucca rossa e ride come una demente partendo per portare a Flora la risposta di Violetta al suo invito? Perché Germont padre porta in scena una sedia di vimini a metà duetto con lei, ci si siede, canta un po’ e poi la riporta fuori? Perché Violetta morente si mette a ballare da sola e dopo trenta secondi non è in grado di alzarsi dal letto? Perché tutti hanno la faccia dipinta di bianco? Straniamento? Ma davvero? Nell’opera più concreta e “politica” e realista di Verdi? E poi Traviata non ha senso se non si capisce che lei fa la “puttana” (testuale), o almeno così diceva Verdi che un po’ se ne intendeva. Altrimenti la si anestetizza. Qui i cantanti fanno le solite cose che fanno i cantanti, il coro fa tappezzeria, le coreografie di Valentina Escobar riempiono i vuoti, talvolta anche con risultati assai belli da vedere come nel finale del secondo atto, e la gente applaude i costumoni. Per Verdi, per la violenza e il dolore e lo scandalo di Traviata, sarà per la prossima volta.

Se non altro lo spettacolo non stride con l’idea del giovin direttore Paolo Bortolameolli, cileno debuttante in Italia, che evidentemente ha di Traviata una concezione tutta lirica, perfino elegiaca, direi addirittura luttuosa. Quindi sonorità attutite, tempi lentissimi e un’insistenza sul particolare che finisce spesso per sfarinare l’insieme: brava la Filarmonica Marchigiana a reggere. È chiaro che il terzo atto funziona benissimo, il secondo così così, il primo per nulla: niente nevrosi, niente isteria, libiam nei mesti calici, e così sia. E poi le scelte testuali sono oggi intollerabili e in generale incoerenti: via i daccapo delle cabalette degli uomini, via la seconda strofa di “Ah, forse è lui”, però Violetta canta tutto l’“Addio del passato”. Ci sono le puntature di tradizione, orrenda tradizione, ma lei non fa il mi bemolle, anche se capisco che dopo un “Sempre libera” catatonico le riserve di fiato siano più esaurite della nostra pazienza. Con tutto ciò, Bortolameolli ha chiaramente talento e braccio, quindi piacerebbe riascoltarlo, magari in un titolo meno esposto e in un luogo meno problematico dello Sferisterio.

Cast. La protagonista, Claudia Pavone, è uno dei soprano emergenti più interessanti. La voce non è particolarmente fascinosa, ma la tecnica a posto, quindi canta bene. Sarebbe anche un’interprete, come ha dimostrato proprio allo Sferisterio in Gilda, però qui non è aiutata né dalla direzione né dalla regia a costruire un personaggio che diventa davvero tale soltanto nell’ultimo atto. A parte una puntatura strozzata e oscillante, Marco Ciaponi è un eccellente Alfredo, che fraseggia con gusto ed eleganza e mostra anche un gran bel timbro italiano. Idem suo papà Sergio Vitale, un Germont molto sfumato e morbido, interessante anche come interprete: peccato qualche acuto un po’ faticoso. Comprimari così così, con menzione d’onore per l’Obigny disinvolto e sonoro di Stefano Marchisio e il Grenvil molto chic di Francesco Leone: “La tisi non le accorda che poche ore” è una di quelle frasi belle ma pericolosamente “scoperte” che Verdi talvolta affibbia ai comprimari, pensate al Messaggero dell’Aida o al Capitano dei balestrieri nel Simone. Degli applausi finali già si è detto.

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