Recensioni - Opera

Erl, inizia la tetralogia con un Oro del Reno minimalista

Messa in scena scarna e ironica della regista Brigitte Fassbaender. Buona compagnia di canto in cui si segnala l’eccezionale Alberich di Craig Colclough

Il Festival Tirolese di Erl riparte con coraggio programmando da quest’anno la messa in scena di una nuova tetralogia wagneriana affidata alla regista Brigitte Fassbaender, rinomato mezzo soprano degli anni passati a cui è stata affidato tutto il ciclo di quattro opere.

Iniziamo con il prologo all’Anello del Nibelungo, ovvero “Das Rheingold” – L’oro del Reno – dove Wagner getta le basi sia musicali che drammaturgiche per quel grande affresco di “arte totale” che sfocerà in Walkiria e Sigfrido e culminerà nel Crepuscolo degli Dei. Crepuscolo che si annuncia già in nuce in questo prologo musicale, costellato solo di Dei, nani e giganti; in cui il nano Alberich ruba l’oro del Reno e con esso ne forgia l’anello. Razza abietta quella dei nani che rinuncia all’amore per la bramosia dell’oro, ma gli Dei, i sublimi, non sono da meno, per questo già nell’Oro del Reno vediamo l’inizio di una parabola discendente che porterà alla distruzione del Walhalla, il magnifico castello che il Dio Wotan si è fatto costruire dai giganti Fasolt e Fafner.

Proprio Wotan per pagare la costruzione della splendida dimora, ruberà a sua volta l’anello ad Alberich iniziando ad avventurarsi sulla strada di perdizione, interrotta solo momentaneamente, in questa prima opera, dall’intervento della dea madre Erda, che impone a Wotan - iconica la sua invettiva “Weiche, Wotan, weiche”- di stare ai patti e di consegnare l’anello ai giganti.

Ma Wotan non è stato ai patti fin dall’inizio, si è reso umano rompendo il contratto con i giganti e Fasolt gli ricorda “Rispetta i contratti! Ciò che tu sei lo sei solo grazie ai contratti” - (“Verträgen halte Treu'! Was du bist, bist du nur durch Verträge”) - , venendo meno a ciò, gli dei non hanno più scopo o motivo di esistere e sono avviati al loro crepuscolo.

Opera d’arte immensa la tetralogia può avere infinite letture. Ad Erl si è deciso di metterla in scena al “Passionsspielhaus”, costruito per le tradizionali recite della passione fra il 1957 e il 1959, un ambiente scarno dunque, di ieratica semplicità. Brigitte Fassbaender imposta perciò una regia altrettanto scarna, ironica, sostanzialmente moderna e teatrale.

Pochi accenni scenografici e delle accurate proiezioni completano la scena con l’orchestra piazzata dietro, in verticale ad incombere sui cantanti che si muovono a proscenio, quasi una scenografia vivente essa stessa, un’incombente e costante presenza, potente simbolo della forza immanente della musica wagneriana.

La regista si muove in ambito contemporaneo coadiuvata dalle poche scene e dai costumi francamente brutti di Kaspar Glarner. Brigitte Fassbaender gioca spesso con l’ironia, con il teatro, ammicca addirittura al teatro per bambini, per poi però cadere anche in vieti stereotipi e in soluzioni poco originali. Molte delle idee migliori vengono accennate, ma si perdono successivamente in soluzioni sceniche non sempre a fuoco.

La scena più riuscita è quella iniziale in cui Alberich ruba l’Oro del Reno alle Ondine, quest’ultime avvenenti donne in abito da sera, che all’apparizione dell’oro rivelano una testa rasata di grande effetto. Complice anche la prova attoriale maiuscola di Craig Colclough, che si muove bene in scena, creando un Alberich mobile e frenetico, e l’aderenza scenica di Illa Staple, Florence Lesseau e Katherina Magiera, che interpretano le figlie del Reno in modo spigliato e gioioso. Teatrale, coerente e ben riuscita insomma questa prima scena dell’opera.

Nella seconda la regista cerca di costruire l’ambiente piccolo borghese di una famiglia in fase di trasloco, in cui dovrebbero muoversi gli Dei, angosciati da pressanti problemi finanziari per pagare “la casa nuova”, dicendola alla Goldoni. Purtroppo qui troviamo diverse cadute in movimenti banali o eccessiva staticità, con affastellamento di mobili inutili e un’aderenza scenica dei personaggi non sempre a fuoco. Non bastano dei costumi colorati a creare dei personaggi eccentrici. Tutti sono sembrati impacciati scenicamente e le varie trovate registiche sparse qua e là in modo abbastanza incoerente si perdevano per strada senza essere più riprese. Da Freia che entra con i capelli bagnati disturbata dall’arrivo dei giganti, alle scontate fiamme all’arrivo di Loge (ma non si era in un’ambientazione borghese?).

Meglio la terza scena, nella caverna del Nibelheim, di nuovo grazie alla capacità scenica di Alberich. Qui la regia ritorna in parte ad una certa classicità, con immagini di rocce e cascate, salvo poi giocare la carta dell’ironia con la trasformazione in drago e rospo da parte di Alberich risolta con un banale gioco per bambini. Qua e là ancora sparsi accenni ironici, come Wotan che si alza i pantaloni per non sporcarsi quando, catturato Alberich, ritorna verso casa.

Siamo ormai all’ultima scena, dove ritorna l’utilizzo di effetti teatrali quali fumo e luci, salvo far entrare Erda, la madre terra, tranquillamente passeggiando e accennando un ritorno di fiamma della vecchia liaison con Wotan sotto gli occhi della gelosa Fricka. A seguire altre soluzione abbastanza classiche come la scena di Freia che viene completamente coperta dall’oro del riscatto o il brutale assassinio di Fasolt da parte di Fafner effettuato con la classica lancia. Comunque di grande suggestione l’ultima scena, in cui tutto si compie e gli Dei si avviano verso il Walhalla, purtroppo lungo una passerella inclinata che, elemento fisico, inficia nuovamente la suggestione di una scena completamente scarna.

Dal punto di vista musicale Eric Nielsen tiene saldamente in pugno l’orchestra dei Tiroler Festspiele, regalandoci dei bei momenti, ma facendoci anche rimpiangere un suono più polposo e corrusco e dinamiche in cui si poteva osare di più. Il migliore della serata sia scenicamente che vocalmente è stato l’Alberich del baritono americano Craig Colclough, che ha delineato un personaggio sempre convincente sfoggiando una voce ampia e sempre ben controllata. Memorabile per interpretazione e fraseggio la celebre tirata della maledizione dell’anello. Ian Koziara è stato un Loge beffardo e ambiguo, bella voce di tenore la sua, con ottimo volume e una messa di fiati sempre controllata. Wotan era Simon Bailey, corretto e partecipe, ma, forse un poco intimorito dalla parte, non ha svettato. Ottime anche le Ondine affidate a Illa Staple, Florence Lesseau e Katherina Magiera, voci amalgamate e affiatate, hanno fornito una prova più che convincente. Tutti ben preparati gli altri interpreti: i giganti Thomas Fulkner e Anthony Robin Schneider; la Fricka algida e distaccata di Dshamilja Kaiser; la Erda di Juditha Nagyovà; il Mime di George Vincent Humphrey; il Froh di Brian Michael Moore e Manuel Walser, che ben si è distinto nell’invocazione finale di Donner.

Il pubblico numeroso e partecipe, ha salutato tutti gli interpreti con grandi applausi, riservando un’ovazione meritata per Craig Colclough e Ian Koziara.

R. Malesci (18/07/21)