Torino, Regio Opera Festival 2021: “Pagliacci”

Torino,  Cortile di Palazzo Arsenale, Regio Opera Festival 2021
“PAGLIACCI”
Dramma in un Prologo e due atti.
Libretto e musica Ruggero Leoncavallo
Nedda (Colombina) VALERIA SEPE
Canio (Pagliaccio) JONATHAN TETELMAN
Tonio (Taddeo) MISHA KIRIA
Beppe (Arlecchino) ANDREA GIOVANNINI
Silvio  ALESSIO ARDUINI
Un contadino GIUSEPPE CAPOFERRI
Un altro contadino MARINO CAPETTINI
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Coro di Voci Bianche del Teatro Regio di Torino
Direttore Stefano Montanari 
Maestro del Coro Andrea Secchi
Direttore delle voci bianche Claudio Fenoglio
Messa in scena Anna Maria Bruzzese

Scene e Costumi Paolo Ventura
Luci Andrea Anfossi
Allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino,  11 Agosto 2021
La pioggia, spauracchio delle recite all’aperto, ha colpito anche il Festival torinese, impedendo la recita di Pagliacci di Sabato 7. Con molta sagacia il Regio, vista la minaccia, non obliterò i biglietti consentendone il riutilizzo, a posti immutati, in una serata straordinaria di ricupero fissata per Mercoledì 11 Agosto. A questa terza recita, dopo una generale aperta e una prima il giorno avanti, abbiamo partecipato. Lo spettacolo, già “rodato”, è filato liscio senza ostacoli ed inciampi nonostante il gran affollamento del palco e, ad avvio, della platea. Anna Maria Bruzzese, ha quindi ben ripreso e adattato quanto Lavia, di cui era assistente, impostò, sulle scene di Piazza Castello, nel gennaio 2017.   Scene e costumi son quelli cui provvide, 4 anni avanti, lo stesso Paolo Ventura, stentiamo invece a credere che Andrea Anfossi non abbia dovuto rivederne integralmente, visto l’ambiente eccezionale, l’illuminazione. Il pubblico, discretamente abbondante, ha apprezzato l’impostazione registica di collocare i fatti in una periferia urbana, tra le macerie di un conflitto testé concluso.
Ambientazione, poco fantasiosa, usata ed abusata, che si rifà all’idea di un (inesistente) legame, son separati da mezzo secolo, tra verismo e neorealismo. Infine, la truculenza del finale sarà mai sufficiente a portare questo raffinato polittico borghese dell’accademico Leoncavallo in area verista? Il consueto accoppiamento con le popolane rozzezze di Cavalleria ci ha sempre indotti a dare risposta positiva alla domanda, queste recite solitarie ci alimentano invece il dubbio che ci si trovi in ben altro contesto culturale. Leoncavallo ha lo stesso atteggiamento paternalista dell’avvocato che assume la difesa del popolano uxoricida. Si sforza di capirne il linguaggio ma gli fa orrore impiegarlo. Ho sempre trovato indicativa, a tal proposito, l’imprecazione più forte che Tonio, lo storpio, lo sciancato, il derelitto, lancia dopo il rifiuto di Nedda: ”per la vergin pia di mezz’agosto Nedda, lo giuro, me la pagherai!”, neanche fosse un allievo dei salesiani . Ben altra cosa “a te la mala pasqua, spergiuro!”
Da quando, nel ’65, Karajan ha sottratto l’opera alla tradizione implacabilmente pop del Carro di Tespi per incardinarla in quella della musica colta europea, si susseguono interpretazioni che mirano a centrare l’equilibrio tra le due sponde. Stefano Montanari, apparenza bizzarra e gesto ancor di più, si dispera che Leoncavallo non sia coevo di Gretry. Lustratissima e quindi lucidissima e trasparente la magnifica Orchestra del Regio di Torino, nonostante un perdonabile fracasso degli ottoni nella fanfara iniziale, veleggia con tempi e sonorità che non si fanno corrompere dalla prosaicità di canto e palcoscenico. Magnifici ne escono l’introduzione al prologo e l’intermezzo. L’intesa con il coro è armonica e perfetta, frutto evidente della maestria compositiva di Leoncavallo, della preparazione del Coro del Teatro regio, istruito da Andrea Secchi, e dal livello raggiunto dal Coro di voci bianche dello stesso teatro sotto la guida del grande e paziente Claudio Fenoglio.
A sfidare le avversità del luogo, ottimo sicuramente per farci sfilate e giuramenti e fors’anche per celebrazioni civili e militari più o meno accostumate d’epoca, ma pessimo per cantarci l’opera, un gruppo di apprezzabili professionisti.
Misha Kiria è un giovane baritono georgiano, ex rampollo dalla scuola della Scala, con repertorio ben definito dal concetto: “canto quel che mi fan cantare, soprattutto di questi tempi”. Attacca, con un bel timbro chiaro il prologo, indugiante, come Montanari comanda, e forzatamente intimo, come il luogo impone. Sarà forse una inedita visione “decadente” dell’opera o la paura da palcoscenico che gela le corde vocali? Vista l’originalità dell’ascolto si propende per la prima, ma l’incertezza di alcuni passaggi, il voi di al pari di voi spiriamo l’aere gli si trozza in gola, ci costringe a malincuore ad optare per la seconda ipotesi. Peccato! Poteva essere una bella ed originale idea interpretativa. Per il resto dell’opera, il grigio prevale, pur non dimenticando le colpe della bacchetta: baritono in ombra. Né Jago, né sventurato che cerca di vendicarsi col mondo.
Nedda, Valeria Sepe, è un’avvenente vivace bambolina, purtroppo dal timbro acidulo e dalla dizione torbida. Una “ballatella” dalle note giuste ma poco affascinante e coinvolgente, passa senza lasciar tracce. Silvio, Alessio Arduini, si appaia a pennello alla Nedda di questa sera, l’una non fa sfigurare l’altro … e viceversa. Da sempre trovo il duetto d’amore tra i due una perla dell’opera lirica, non solo dei Pagliacci, ma altro spirito, altra verve, altra passione ci devono stare. Torniamo alle responsabilità di una bacchetta lontana dalla vicenda, e pure ad una regia che permette a Silvio di confessare le sue ardenti passioni comodamente seduto su una panchina, incurante dell’amata che svolazza e incomprensibilmente gorgheggia lontana da lui. Beppe-Arlecchino, Andrea Giovannini, è condannato, a causa della inimitabile storica incisione di Schipa, a trovar la vita dura ad emergere nella sua arietta. Nel rimanente della parte, esce convincente sia come attore che come cantante. Canio, Jonathan Tetelman, finalmente! C’è chi sostiene che le preferenze e gli apprezzamenti gli vengano più per il bell’aspetto, Corelli like, che per la voce che presenterebbe tare di base e di studio. La voce di tenore lirico eroicheggiante è bella e ben timbrata, dotata di uno squillo che la fa correre e superare agevolmente gli ostacoli del luogo e della circostanza. La baldanza, scevra di sfumature, del canto del bel cileno coinvolge, oltre al pubblico, pure Montanari che è forzato ad uscire dalla sua lustratissima nicchia per assecondarla. Un “Recitar…” e un “Vesti la giubba …” che sicuramente valgon la serata e possono rimanere a buon ricordo come  già il Cavaradossi di alcuni anni fa, in un secondo cast del Regio, dove rilevava un collega messicano di ben altra fama ma di momento difficoltoso. Per dovere e con piacere si citano qui e si ringraziano la professionalità e la giustezza dei Contadini Giuseppe Capoferri e Marino Capettini.
Il pubblico, a fine spettacolo, saluta calorosamente cantanti artisti e artefici dello spettacolo. Un quasi-trionfo è meritatamente riservato a Tetelman. La conduzione di Molinari ha suscitato rade riserve.