L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Norma d’occasione

di Giuseppe Guggino

Il Teatro Bellini di Catania presenta per la prima volta il maggiore titolo belliniano in una nuova edizione critica curata da Roger Parker. Per l’occasione Davide Livermore concepisce uno spettacolo omaggio a Giuditta Pasta, creatrice del ruolo nel 1831.

Catania, 23 settembre 2021 - Un po’ come Bologna celebra il “suo” Lucio Dalla, sono delle belle luminarie a tema per le strade di Catania che in questi giorni omaggiano il cigno Bellini. L’idea del festival dedicato al compositore dalla sua città di nascita nel mese di settembre è ormai antichissima e si può far risalire al 1989 quando Richard Bonynge accostò i Puritani all’antesignana Nina paisielliana; poi fu la volta di Zaira, di Bianca e Fernando (che rivelò un Gregory Kunde capace di toccare il fa acuto con impressionante facilità) e dell’Adelson, prima che la manifestazione si riducesse al solo tradizionale concerto del 23 settembre. A distanza di tanti anni l’edizione nazionale delle opere belliniane ha percorso qualche miglio con la stampa di qualche edizione critica (I Capuleti e Montecchi, la Sonnambula, I Puritani) e la predisposizione di qualche altra edizione in versione preliminare. Roger Parker con il suo lavoro di ripulitura di Norma – non da ultimo dopo le revisioni di Robbins Landon, Minasi e Biondi – offre quindi l’occasione per ripensare l’idea di festival e il Teatro Bellini di Catania prova a farlo in grande, con numerosi concerti e manifestazioni collaterali, il coinvolgimento delle altre maggiori istituzioni musicali siciliane e la diretta dell’appuntamento operistico principale su Rai5.

Sarà stata probabilmente la suggestione filologica del testo eseguito in nuova edizione critica a suggerire a Davide Livermore il viaggio a ritroso nel tempo fino 26 dicembre 1831; sin dalla sinfonia, infatti, in un salotto borghese ottocentesco ritroviamo un’anziana Giuditta Pasta (interpretata da Clara Galante) che intenta a rievocare e rivivere quella fatidica serata che la vide trentaquattrenne creatrice del ruolo eponimo. Per tutto lo spettacolo si assiste quindi ad una sovrapposizione di ambienti, fra Italia ottocentesca e druidiche Gallie, con una continua osmosi resa possibile solamente con l’ultimo ritrovato tecnologico dei tre giganteschi ledwall che costituiscono la scena di Lorenzo Russo Rainaldi, mentre l’antica matericità del costume di scena rende meno fluidi i continui andirivieni fra tempo e spazio, cosicché il lavoro di Mariana Fracasso risulta alla fine piuttosto confuso. Nello spettacolo – potrebbe dirsi “d’occasione” – di Livermore la vita della Pasta scorre anche oltre il 1831 sicché, oltre a farsi animatrice dell’azione scenica, ora raddoppiando l’azione di Norma cantante, ora guidandola con materna cura, si sovrappone all’odio druidico verso l’invasore romano quello dei milanesi contro il dominatore asburgico; ecco quindi che il coro di guerra è ben risolto fra le barricate delle cinque giornate milanesi che in effetti registrarono il contributo alla causa risorgimentale storicamente accertato della Pasta, ormai non più in carriera, che mise a disposizione dei rivoltosi il suo palazzo milanese di Via Montenapoleone, fatto costatole poi l’esilio in Svizzera.

La stessa cura della realizzazione scenica si ritrova fra le masse del Teatro Bellini di Catania ben guidate da Fabrizio Maria Carminati e dal Maestro del Coro Luigi Petrozziello; l’esecuzione è di alto profilo e, complice una scelta di tempi abbastanza contemplativi, consente di cogliere piccole differenze di legature e di fraseggi rispetto alla consolidata tradizione musicale, altrimenti impercettibili in una lettura di taglio quarantottino. Quanto all’assetto morfologico del testo si deve segnalare l’assenza di tagli di tradizione nei da capo e nelle ripetizioni, il ripristino della tonalità originaria di Casta diva e della cosiddetta ‘preghiera’ in coda al coro del secondo atto; si è scelto invece di non riaprire né i tagli delle strofe di Adalgisa del concertato del finale primo e della relativa stretta, né l’enunciazione del tema da parte del violoncello a solo nel preludio del secondo atto. Esiti musicalmente apprezzabili giungono anche dai solisti, capaci di assicurare una certa omogeneità a partire dalla Clotilde di Tonia Langella e dal Flavio di Saverio Pugliese. Dario Russo affronta Oroveso con palpabile senso dello scrupolo, mentre Stefan Pop punta sulla generosità dei mezzi per un Pollione di una certa genericità stilistica. Annalisa Stroppa, giunta a sostituire in extremis una collega indisposta, impegnata nel ruolo eponimo in Carmen al Massimo di Palermo fino a poche ore prima, si segnala per la linea di canto vigilata sempre auspicabile nella parte di Adalgisa e infine con Marina Rebeka si ritrova una Norma non stupefacente per ampiezza e bellezza di timbro, ma capace di reggere l’oneroso ruolo senza sconti né compromessi.

Grande successo di pubblico, sia per la parte musicale che per quella visiva. La strada del festival è ormai nuovamente tracciata; si prosegue fra le altre cose il 30 settembre con un concerto dell’Orchestra del Teatro Massimo diretta da Gabriele Ferro dedicato anche ad alcune sinfonie giovanili di Bellini, nonché il 6 ottobre con un omaggio a Giuseppe Sinopoli nel ventennale della scomparsa con musiche di Wagner e Bellini.


 

 

 
 
 

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