Venezia, Teatro La Fenice: “Rigoletto”

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica, Stagione 2020-2021
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti, libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma Le Roi s’amuse di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova MARCO CIAPONI
Rigoletto DALIBOR JENIS
Gilda LARA LAGNI
Sparafucile MATTIA DENTI
Maddalena VALERIA GIRARDELLO
Giovanna CARLOTTA VICHI
Il conte di Monterone GIANFRANCO MONTRESOR
Marullo ARMANDO GABBA
Matteo Borsa MARCELLO NARDIS
Il conte di Ceprano MATTEO FERRARA
La contessa di Ceprano ROSANNA LO GRECO
Un usciere di corte UMBERTO IMBRENDA
Un paggio della duchessa FRANCESCA POROPAT
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Daniele Callegari
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Agostino Cavalca
Light designer Alessandro Carletti
Nuovo allestimento Dutch National Opera, Amsterdam
Venezia, 1 ottobre 2021
Un uomo dalla mente completamente sconvolta per un insopportabile senso di colpa, che gli ha fatto perdere la ragione: tale è il personaggio di Rigoletto così come appare nell’allestimento dell’omonimo capolavoro verdiano, a suo tempo ideato dal sempre vulcanico Damiano Michieletto per l’Opera nazionale di Amsterdam, andato in scena nel 2017, e ora riproposto dalla Fenice. Nella concezione del regista veneziano, il protagonista – divenuto folle in seguito alla morte violenta dell’adorata Gilda, sua unica figlia, nonché sua sola ragione di vita dopo la prematura scomparsa dell’amatissima moglie – rivive nella sua mente malata l’immane tragedia, che ha distrutto la sua vita. In una sorta di lungo flashback passa in rassegna quelle vicende cruciali, culminate appunto nell’assassinio di Gilda da parte di un Killer di professione, qual è Sparafucile: un truce epilogo, di cui si sente responsabile, reso ancor più straziante da alcune proiezioni in bianco e nero, rievocanti l’infanzia della figlia, che appare come una bimbetta con le treccine, ma è già anelante alla libertà, all’emancipazione rispetto alla clausura, cui la costringe morbosamente il padre. Ma questo suo desiderio di vita, ne fa la vittima predestinata di un dongiovanni incallito, qual è il Duca: le apparizioni in palcoscenico di una sorta di “doppio” della sventurata fanciulla, che si cela sotto una maschera bianca, raffigurante il volto del blasonato libertino, e porta con sé un velo nero – il suo futuro lenzuolo funebre – stanno ad indicare simbolicamente la tragica fine che le è riservata per aver ceduto alle lusinghe del nobiluomo.
Michieletto, dunque, propone, com’è sua abitudine, una lettura originale – forse un tantino stravagante –, che rompe, anche in questo caso, con la tradizione, per quanto ricorrendo a soluzioni, a dire il vero, già viste in altri spettacoli: ad esempio, quella di concepire la vicenda come il frutto dell’attività psichica del protagonista o di ricorrere alle moderne risorse multimediali, per non parlare – nella fattispecie del Rigoletto – dell’eliminazione dal corpo del protagonista della proverbiale gobba, che appare invece, finta, sulla schiena di Monterone. Quest’ultimo, non appena entra in scena, diventa metaforicamente Rigoletto e ne assume anche le sembianze, ad indicare che, secondo il regista, si tratta di un personaggio, per certi versi, simile al protagonista: anche lui è un padre, che va dal Duca per difendere l’onore della figlia, venendo irriso, tra l’altro proprio dallo stesso Rigoletto. È come se il Buffone si burlasse di se stesso, anticipando – a ruoli invertiti – l’umiliazione, che dovrà subire di lì a poco. Questa è certamente una buona intuizione. Altrettanto non si può dire della godibilità dello spettacolo. Il fatto che questo si svolga su una scena fondamentalmente fissa – una stanza d’ospedale con inquietanti squarci alle pareti – e che questo colore sia prevalente anche nei costumi, ovviamente moderni, dei personaggi – a parte quelli più colorati, indossati da Rigoletto, Gilda e Monterone – e dei coristi – anch’essi con il volto coperto dall’effigie bianca del Duca, una delle ossessioni di Rigoletto –, non contribuisce alla vivacità dello spettacolo, stridendo, a nostro avviso, in molti casi con la ricchezza espressiva, la raffinata varietà coloristica della scrittura verdiana. Interessante, comunque, ci è sembrato l’uso delle luci, generalmente bianche, che si tingono sinistramente di verde quando il coro intona “Duca, duca! L’amante fu rapita a Rigoletto”.
Dal punto di vista musicale l’opera ci rivela – come abbiamo accennato – un Verdi ormai scaltrito e teso al rinnovamento del proprio linguaggio, dopo gli “anni di galera”: un Verdi, che Daniele Callegari ci ha degnamente restituito, mettendo anche bene in risalto il ruolo fondamentale, che ha assunto ormai l’orchestra, non più mero accompagnamento del canto. Ineccepibile era l’affiatamento tra la buca e il palcoscenico come il ripristino del più genuino dettato dell’autore – in base all’edizione critica – eliminando certe, ormai anacronistiche, “varianti” – puntature, tagli e quant’altro – di tradizione.
Quanto alle voci (quelle del secondo Cast), la nostra valutazione è sostanzialmente positiva. Dalibor Jenis, nel ruolo di Rigoletto, ha mostrato, dall’inizio alla fine, efficacia di mezzi vocali e intelligenza interpretativa nell’esprimere gli aspetti spesso contrastanti del protagonista, capace di dimenticare la sua condizione di giullare di corte, che deve solo far ridere, per mutarsi in “altr’uomo”, in un padre teneramente affettuoso, per quanto ossessivamente protettivo nei confronti della figlia. Se la sua emissione non era timbratissima, ha nondimeno convinto, soprattutto per la sua capacità di aderire musicalmente alla “parola scenica” tra sfumature e contrasti, nelle arie e cabalette come nel declamato drammatico, che percorre mirabilmente la partitura verdiana. Scevra da ogni sdolcinatura era la Gilda di Lara Lagni, che con voce limpida e omogenea ha saputo delineare un personaggio a tutto tondo, in grado di interagire dialetticamente con il padre, coniugando, anche lei, aspetti contrastanti della sua personalità: l’ingenuità fanciullesca con la determinazione, fino all’estremo sacrificio. Passando agli altri interpreti, Marco Ciaponi ci ha offerto un Duca di Mantova giustamente beffardo e appassionato, grazie ad una voce estesa e dal timbro chiaro e penetrante, mentre un po’ troppo “leggero” timbricamente è risultato lo Sparafucile di Mattia Denti, che ha comunque efficacemente delineato un personaggio dai modi spregiudicati quanto insinuanti. Credibile, tutt’altro che macchiettistica è risultata Valeria Girardello nei panni di Maddalena così come nobilmente tragico era il Monterone di  Gianfranco Montresor. Bene si sono comportati anche Carlotta Vichi (Giovanna), Armando Gabba (Marullo), Marcello Nardis (Matteo Borsa), Matteo Ferrara (Il conte di Ceprano), Rosanna Lo Greco (La contessa di Ceprano), Umberto Imbrenda (Un usciere di corte) e Francesca Poropat (Un paggio della duchessa), oltre al coro, fattosi come sempre apprezzare. Grandi applausi, alla fine, per tutti.