Palermo: un Pirata incandescente

Il Pirata è ascrivibile alla categoria delle opere impossibili per una serie dì ragioni oggettive, prima tra tutte la tessitura del protagonista pensata per un cantante, Rubini, considerato all’epoca il maggior virtuoso del falsettone e per il quale i re sopracuti erano il pane quotidiano.

A questa si aggiungano una scrittura che più belcantista – e dunque completamente “ – scoperta” non si potrebbe, un libretto prosodicamente affannoso, la mancanza di cabalette vere e un vilain che dal punto di vista drammaturgico più moscio non si potrebbe dare.

Ciò premesso il Pirata appartiene al Bellini più ispirato, quello delle melodie che sembrano non aver mai fine, della vena di malinconia non solo mai celata ma anzi baldanzosamente esposta e quindi, al netto di tutte le difficoltà in essa contenute, dovrebbe ritrovare un posto stabile nella programmazione dei teatri che cascano invece sempre in Norme e Sonnambule.

Onore al Massimo di Palermo che accetta la sfida di riproporre il titolo in una produzione che presenta indubbi elementi d’interesse.

La parte visiva dello spettacolo è più che dignitosa, partendo dall’assunto che l’azione è praticamente inesistente e la coppia e Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi – autori anche delle scene minimaliste ma buone in futuro per un Peter Grimes o un Billy Budd o anche per un musical alla Chicago – sembra lavorare sul tema dell’eterno triangolo.

Tre sono le gomene che si intrecciano sulla prora isoscele  del vascello al centro della scena mentre sul fondo campeggia un praticabile di snella nudità il tutto di tanto in tanto coperto da un telo cangiante. I costumi di Isabella Rizza sono – tranne quelli “contemporanei” dei solisti improntati ad un parsimonioso “ognuno si porti qualcosa da casa”.

Massima  libertà di movimento concessa ai cantanti mentre il coro – via le mascherine, per piacere! – tende alla staticità.

Di ottimo livello l’esecuzione musicale a cominciare dalla direzione incandescente di Francesco Lanzillotta – complice un orchestra in grande spolvero soprattutto per quanto attiene ai legni ed agli ottoni – che stacca tempi perentori offrendo al contempo rapinose aperture ai momenti di maggior elegia, colorando e sottolineando senza mai cadere nella trappola di giulebbe “pseudoromantiche”.

Nel ruolo-titolo Celso Albelo  offre il fuoco di un fraseggio sempre incisivo arricchito da acuti svettanti. Il suo Gualtiero si accende in lampi vendicatori per abbandonarsi poi a nostalgie remote.

Roberta Mantegna è Imogene dalla vocalità rigogliosa e poggiata su una linea di canto  adamantina oltre che su una continua ricerca di colori.

Magnifico l’Ernesto disegnato da Vittorio Prato, capace di trarre tutto quanto a livello drammaturgico il personaggio può dare aggiungendoci di suo quel qualcosa in più che lo rende quasi simpatico.

Nelle parti di contorno si mette il luce l’Adele extralusso di Natalia Gavrilan e figurano bene l’Itulbo ben centrato di Motoharu Takei e il Goffredo partecipe di Giovanni Battista Parodi.

Buona la prova del coro istruito da Ciro Visco.

Meritato successo finale per tutti.

Alessandro Cammarano
(20 ottobre 2021)

La locandina

Direttore Francesco Lanzillotta
Regia e scene Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi
Costumi Isabella Rizza
Luci Luigi Biondi
Personaggi e interpreti:
Ernesto Vittorio Prato
Imogene Roberta Mantegna
Gualtiero Celso Albelo
Itulbo Motoharu Takei
Goffredo Giovanni Battista Parodi
Adele Natalia Gavrilan
Orchestra e coro del Teatro Massimo
Maestro del Coro Ciro Visco

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