“Giovanna d’Arco” di Verdi torna all’Opera di Roma

Teatro dell’Opera di Roma, stagione lirica 2020-21
“GIOVANNA D’ARCO”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Temistocle Solera, tratto da Die Jungfrau von Orléans di Friedrich Schiller.
Musica di Giuseppe Verdi
Carlo VII  FRANCESCO MELI
Giovanna  NINO MACHAIDZE
Giacomo  ROBERTO FRONTALI
Delil   LEONARDO TRINCIARELLI
Talbot DMITRY BELOSELSKY
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Daniele Gatti
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia e coreografia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Anna Verde
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma con elementi scenici del Palau de les Artes Reina Sofia, Valencia
Roma, 19 ottobre 2021
Per la ripresa della stagione operistica al chiuso del teatro dell’Opera di Roma viene proposta la Giovanna d’Arco di Verdi presente una sola volta nella storia esecutiva del teatro nel 1972 in occasione della ripresa di uno spettacolo del teatro La Fenice di Venezia con una giovane Katia Ricciarelli. Interessante la proposta di un titolo così desueto e saggia la scelta di allestire uno spettacolo non eccessivamente lungo al chiuso con obbligo di mascherina, green pass distanziamento e quanto altro giustamente ritenuto necessario per la tutela di tutti dalla pandemia da Covid ancora purtroppo non sconfitta. La regia e la coreografia di questa opera incentrata su un personaggio storico certamente entrato nel mito ma anche molto controverso e di interpretazione nei secoli di segno non univoco è stata affidata a Davide Livermore. Il regista ambienta la vicenda in uno spazio atemporale con una enorme ellisse che scende a spirale verso il basso sovrastata da una grande emisfera trasparente nella quale una farfalla svolazza fra le fiamme o compaiono frasi politically correct attribuite all’analfabeta eroina eponima o immagini che commentano l’azione e rappresentano i pensieri dei personaggi. Indiscutibile merito di questa regia è quello evitare riferimenti a precedenti letture ideologiche legate ora alla destra catto-nazionalista ora al femminismo contestatario e cripto omosessuale di sinistra o alla psichiatria e di essere incentrata principalmente sulla scissione del personaggio tra anima e corpo, incarnata dal suo doppio che si aggira in scena lasciando un che di insoluto che però è insito anche nella struttura dell’opera e che forse è alla base della sua scarsa popolarità a dispetto di diversi numeri musicali più che degni di apprezzamento. In sintesi, pur nella trasposizione moderna e tecnologica Livermore propone una lettura che nel bene e nel male penetra appieno lo spirito verdiano di un’opera comunque meritevole di interesse per la concisione narrativa e la presenza di diverse idee e situazioni drammatiche che poi saranno riprese e sviluppate nelle composizioni successive. Francamente non belli i costumi e gli ormai irrinunciabili cappottini, versione moderna delle tanto esecrate parrucche e crinoline, mentre interessante sebbene un po’ monocromo è apparso il gioco delle luci che contribuisce a rafforzare questa idea di grigio e, in fondo, di irrisolto del personaggio. In un’opera non troppo lunga infatti il gioco può funzionare bene e aiuta a trovare quella “tinta” che Verdi cercava sempre nelle sue composizioni. Splendida la direzione del maestro Daniele Gatti per scelta dei tempi, chiarezza di concertazione e abbandono melodico. Ottima anche la prova del coro diretto dal maestro Roberto Gabbiani ed impegnato in una lunga parte con numerosi interventi anche fuori scena. Nel ruolo di Carlo VII il tenore Francesco Meli ha cantato con raffinata musicalità e partecipazione rendendo la parte dell’incerto e controverso personaggio con splendido timbro vocale e suadente fraseggio. Giacomo era il baritono Roberto Frontali dalla dizione impeccabile e dalla intensa e tormentata umanità di padre resa con convincente e sincera partecipazione. Francamente al di sotto delle aspettative vocali gli altri due protagonisti maschili ma corretti musicalmente. E infine veniamo alla protagonista. Nino Machaidze canta indubbiamente molto bene ed ha temperamento scenico idoneo alla parte ma crediamo che forse il ruolo non si addica troppo ai suoi mezzi vocali. Spesso mancava la completezza delle arcate vocali che terminavano con pianissimi ai limiti dell’udibile e nei concertati talvolta veniva sopraffatta dalla mole di suono prevista dalla scrittura. Le va comunque riconosciuto il merito di una lettura musicalmente molto curata della parte, con agilità inappuntabili e la capacità di rendere il nobile piglio di una donna guerriera ma animata dalla fede. Ottimo e di particolare interesse il ricco programma di sala, strumento di particolare utilità e di insostituibile valore culturale soprattutto in occasione di esecuzioni di opere non di repertorio. Alla fine lunghi e meritati applausi per tutti da parte di un folto pubblico evidentemente soddisfatto ma comprensibilmente combattuto fra il desiderio di liberarsi dalle mascherine e quello di ascoltare ancora le belle melodie verdiane. Foto Fabrizio Sansoni