Recensioni - Opera

Monaco, sontuosa messa in scena de “Il Naso” di Dimitri Shostakovich

Spicca la raffinata concertazione di Vladimir Juroski per un’opera che non ha perso la sua carica avanguardista

Nicolai Gogol pubblica nel 1836 un piccolo racconto surreale dal titolo “Il Naso”, in cui si narra dell’assessore di collegio Kovalëv, che, svegliatosi una mattina senza il suo naso, cerca di ritrovarlo per tutta San Pietroburgo, imbattendosi nello stesso “Naso”, divenuto un altro sé stesso, che prega in cattedrale. Nella sua ricerca lo sfortunato protagonista si imbatte in una miriade di personaggi grotteschi che popolano la società ottocentesca russa, divisa in una pletora di ruoli amministrativi rigidamente definiti, per cui l’individuo non è altro che la sua funzione e il suo grado nella scala amministrativa inventata dallo zar Nicola I.

Kovalëv si identifica nel suo grado pur possedendolo da soli due anni, con le sue spasimanti infatti, dice Gogol, si fa chiamare addirittura maggiore. Tanto più è il suo stupore quando incontra il suo Naso, divenuto un personaggio autonomo e bardato in uniforme da consigliere di stato, un grado decisamente superiore al suo.

Il racconto di Gogol si presta a molteplici interpretazioni ed è tanto surreale e provocatorio, in parte anche sconclusionato, da non sembrare scritto all’inizio dell’ottocento. In questo racconto si imbatte il giovane Dimitri Shostakovic, fresco di conservatorio, intorno al 1927. Tre anni dopo ne aveva tratto la sua prima opera, che debutta il 18 Gennaio 1930 al Teatro Maly di Leningrado, la San Pietroburgo di Gogol passata dal revisionismo toponomastico della rivoluzione bolscevica.

A Monaco la regia è stata affidata al regista e sceneggiatore russo Kirill Sebrennikov, fiero oppositore dell’attuale regime e difensore dei diritti della comunità LGBT russa. Il regista è stato costretto, essendo stato privato del passaporto, a condurre la regia non in presenza ma da remoto, avvalendosi della coregia di Evgeny Kulagin. È evidente che la condizione personale di Sebrennikov, dissidente e condannato per reati politici, non possa non aver influito sulla sua lettura del Naso e sulla sua messa in scena.

Infatti sul palco troviamo una moderna San Pietroburgo assediata dalla neve, in cui “il naso” diventa simbolo di privilegio, per cui più “nasi” si possiedono più privilegi sociali si accumulano. La popolazione odierna di San Pietroburgo è perciò immaginata dal regista con un accumulo di nasi posticci, una tendenza irrefrenabile alla pinguedine e caratterizzata da una bruttezza e deformità dilagante. Sebrennikov mette in scena uno stato di polizia, in cui lo stesso protagonista, da funzionario del governo zarista, si trasforma in poliziotto, ansioso di fare carriera e felice del suo vistoso naso posticcio, simbolo di privilegio e potere.

Quando però Kovalëv, il bravissimo Boris Pinkhasovich, perde il proprio naso è costretto a spogliarsi di ogni ammennicolo e di ogni sovrastruttura. La perdita del naso viene simboleggiata dal regista con la perdita della deformità, della pinguedine, dell’orribile maschera che copre il volto di tutti gli interpreti. Perdere il proprio naso significa, nella visione di Sebrennikov, diventare un uomo normale, finalmente umano. Un uomo che improvvisamente vede l’orrenda e falsa condizione dello stato di polizia in cui è sempre vissuto e in cui ha cercato di adattarsi e di fare carriera. Quando poi incontra il “suo naso”, cioè il naso personaggio, non a caso quest’ultimo assomiglia in modo inquietante e sospetto ad un elegante e conciliante Vladimir Putin. Per Sebrennikov se i nasi posticci sono privilegi che inevitabilmente deformano l’essere umano, il “Naso personaggio” è la quintessenza del privilegio, il potere, l’assoluto.

Kovalëv, diventato uomo normale, insegue il suo naso come avviene nel racconto di Gogol, riportato dal libretto sviluppato dallo stesso Shostakovic con diversi collaboratori in modo assai preciso, a tratti parola per parola. Quando finalmente ritrova in modo del tutto inaspettato il suo naso, il nostro assessore di collegio/poliziotto ritorna, dopo un’iniziale difficoltà, a riavere il suo naso grottesco, la sua deforme pinguedine, insomma a non essere più umano, ma un ingranaggio del sistema. Molto azzeccato il finale in cui appaiono due tristi condomini di stampo socialista, ispirati al quadro di Sergei Lutschischkin “Il pallone vola via”, dalle cui finestre si vedono poveri uomini omologati che vivono dentro appartamenti anonimi. Kovalëv sembra felice di ritrovare casa sua, la sua tranquillità, il suo posto fra quei mostri grotteschi che divengono gli uomini che vivono sotto la dittatura del privilegio; sta per entrare, ma ha un’esitazione, forse un ricordo di quando aveva perduto il suo naso. In quel momento si vede un uomo impiccarsi in uno degli appartamenti. Arriva una bambina con un palloncino rosso. Kovalëv non entra più in casa. Il palloncino vola via. L’opera si conclude con un colpo di grancassa e il buio improvviso.

Progetto lucido, fermo, conseguente quello di Sebrennikov: una lettura assolutamente contemporanea, politica, antiautoritaria di un grande capolavoro di teatro musicale. Certo il rigore politico e morale soffre a volte di macchinosità nella messa in scena e di eccessivo cerebralismo. La scena imponente, a firma dello stesso Sebrennikov, con il supporto di Olga Pavluk e i coerenti costumi di Tatyana Dolmatovskaya, tenta infatti di riprodurre vari ambienti seguendo il filo di una città assediata dalla dittatura, dal gelo e dalla neve. In grande spolvero tutto l’apparato tecnico e scenico dell’opera di stato bavarese, che riesce a gestire con precisione millimetrica e senza sbavature un allestimento complesso che è un continuo cambio scena. Alcuni buoni effetti, come il primo intermezzo dedicato alle percussioni con i musicisti in scena che avanzano su una pedana mobile, oppure la scena della cattedrale di Kazan, si perdono però in un reiterato ricorso a pedane che entrano ed escono, mucchi di neve finti spostati da macchinisti in giubbotto catarifrangente, ripetizione di stilemi oppressivi quali transenne d’acciaio o camionette antisommossa che alla lunga risultano ripetitivi e poco efficaci. Anche l’uso delle scritte e delle immagini proiettate non ottengono pienamente lo scopo, risultando da una parte didascaliche e dall’altra non creando alcuno straniamento di brechtiana memoria. In buona sostanza non si trova nulla da straniare in un allestimento che resta, eccetto l’azzeccato finale, sempre a livello della fruizione mentale. Il grande nitore simbolico dell’operazione si perde spesso in una trasposizione teatrale non sempre efficace e, soprattutto nella parte centrale, meccanica e pletorica.

Grande prova musicale per l’orchestra di stato bavarese, che, splendidamente diretta da Vladimir Jurowski, regala una esecuzione di rara precisione, in un’alternanza perfettamente calibrata fra i pianissimi impercettibili e i virulenti clangori del primo Shostakovic, con le assillanti ripetizioni ritmiche che sfociano in inaspettate dissonanze. Il giovane Shostakovic osa con “Il Naso” effetti e soluzioni che tralascerà a forza nelle composizioni successive, nate sotto l’inevitabile pressione del regime di Stalin. Vladimir Jurowski concerta e dirige con inarrivabile proprietà stilistica, ottenendo un’esecuzione maiuscola sia dall’orchestra che dalla numerosa e ottima compagnia di canto.

Su tutti spicca il Kovalijov di Boris Pinkhasovich, che, forte di una bella voce di baritono timbrata e omogenea e di una spiccata dote attoriale, disegna un assessore di collegio credibile e completamente in parte. Al suo fianco un ottimo Sergei Lieferkus come Ivan Jakovlevic e una perfetta Doris Soffel come vecchia signora. Tutto il cast tuttavia, numerosissimo, merita una menzione per la precisione e professionalità con cui tutti hanno dato vita e anima ad un’opera così complessa e corale. Li citiamo tutti: Laura Aikin, Andrey Popov, Sergey Skorokhodov, Anton Rositskiy, Sean Michael Plumb, Gennady Bezzubenkov, Martin Snell, Piotr Micinski, Milan Siljanov, Bálint Szabó, Andrew Hamilton, Theodore Platt, Andrew Gilstrap, Roman Chabaranok, Tansel Akzeybek, Alexander Fedorov, Armando Elizondo, Granit Musliu, Vasily Efimov, Ulrich Reß, Eliza Boom, Alexandra Durseneva, Mirjam Mesak, Tansel Akzeybek, Roman Chabaranok, Anton Rositskiy, Changhoun Eo, Meili Li, Matthias Dähling, Brennan Hall, Kiuk Kim, Aleksandar Timotic, Nina Laubenthal, Julie Marx, Susanne Metzner, Agnes Preis.

Applausi convinti a fine serata per un’opera e una messa in scena che regalano molti stimoli per interpretare il nostro mondo contemporaneo.

R. Malesci (30 Ottobre 2021)