Venezia: i simboli(?) di Fidelio

«Wer du auch seist, ich will dich retten, bei Gott, du sollst kein Opfer sein! /Gewiss, ich löse deine Ketten,/ich will, du Armer, dich befrein!» –

«Chiunque tu sia, ti voglio salvare, /per Dio, non sarai una vittima! /Si, io sciolgo le tue catene, /misero, ti voglio liberare!» –

La sostanza più intima di Fidelio risiede in questi versi: Leonore non sa ancora che il prigioniero per il quale deve scavare la fossa è il marito Florestan, per lei è semplicemente un uomo che soffre una pena ingiusta ed ha bisogno del suo aiuto, che a lui sarà dato a prescindere, senza remore, gratuitamente.

Leonore/Fidelio procede per amore e per giustizia così come Don Pizzarro – in mirabile gioco di specchi – è mosso da sentimenti esattamente opposti; qui la lotta non è semplicemente tra bene e male, ma tra etico e immorale; Beethoven detestava l’esercizio del potere visto come prevaricazione di molti da parte di pochi e il suo unico lavoro per il teatro è rappresentazione paradigmatica del suo credo, che affonda le radici nel profondo del terreno illuminista.

Opera senza tempo, seppur temporalmente collocata, universale come lo sono le tragedie classiche e i drammi scespiriani, sconvolgente come solo gli ideali possono e sanno essere, capace di scuotere le coscienze, celebrazione della Libertà intesa come condivisione di ideali alti e comuni.

Con un anno di ritardo rispetto a quanto previsto – implacabile l’artiglio della pandemia – il Fidelio approda finalmente sul palcoscenico della Fenice per inaugurare la Stagione 21/22, però l’attracco non è dei più felici.

Il regista Joan Anton Rechi – nell’intervista pubblicata nel programma di sala – parla di “simboli” di una “caretterizzazione spagnola” della tragicamente nota “Valle de los caídos”; peccato che di tutto ciò in scena non vi sia la benché minima traccia, dato che tutto resta nell’ambito di una irrisolta mise-en-espace. Le difficoltà drammaturgiche dell’unica opera di Beethoven sono arcinote, ma qualcosa in più si sarebbe potuto fare rispetto alla torcia a pile con cui Pizzarro si illumina il viso come se fosse un bambino che racconta una storia paurosa durante un pigiama-party.

Nel primo atto tutto ruota intorno ad un testone che emerge, semiscolpito, dal terreno – le scene sono di Gabriel Insignares mentre i costumi bruttini portano la firma di Sebastian Ellrich – intorno alla quale sostanzialmente non succede nulla, mentre i cerchi che si susseguono nel secondo più che un richiamo alla segreta dove è tenuto prigioniero Florestàn riportano alla mente il ventre del terribile Pesce-cane di collodiana memoria. Un brutto non-spettacolo, insomma di cui neppure le luci sapientissime di Fabio Barettin riescono a nobilitare la pochezza.

Non va meglio – con alcune eccezioni – neppure dalle parti dell’esecuzione musicale.

Le serate non esattamente felici capitano anche ai più grandi e questa volta è toccata a Myung-Whun Chung, solitamente una garanzia di ottima riuscita ma in questa occasione protagonista di una prova al di sotto dei suoi standard, caratterizzata da una costante incertezza sulla strada da percorrere, con la componente ritmica a soverchiare l’afflato melodico e una scelta di tempi incomprensibile. Perché poi sostituire l’ouverture con la Leonore III, di fatto un impaginato a se stante posto dalla tradizione tra i due quadri del secondo atto?

La Leonore di Tamara Wilson convince per bellezza di timbro e varietà di fraseggio mentre Ian Koziara è Florestan dalla vocalità imbarazzante – acuti impiccati e centri sbiancati – tanto da naufragare nell’unica aria a lui riservata.

Bene il Pizzarro violento e pavido, nonché gonfiato di botte dalle guardie del “pacifista” Don Fernando, disegnato da Oliver Zwarg, come positiva la prova della coppia giovane Jaquino-Marzelline, rispettivamente Leonardo Cortellazzi ed Ekaterina Bakanova.

Non sfigurano neppure il Rocco generoso di Tilmann Rönnebeck e l’autorevole Don Fernando tratteggiato da Bongani Justice Kubheka.

Bravi Dionigi d’Ostuni e Antonio Casagrande come Primo e Secondo Prigioniero mente il coro in mascherina fa quello che può.

Il pubblico applaude convinto, in fondo essere di nuovo in un teatro davvero pieno è già un bel successo.

Alessandro Cammarano
(20 novembre 2021)

La locandina

Direttore Myung-Whun Chung
Regia Joan Anton Rechi
Scene Gabriel Insignares
Costumi Sebastian Ellrich
Light designer Fabio Barettin
Personaggi e interpreti:
Don Fernando Bongani Justice Kubheka
Don Pizzarro Oliver Zwarg
Florestan Ian Koziara
Leonore Tamara Wilson
Rocco Tilmann Rönnebeck
Marzelline Ekaterina Bakanova
Jaquino Leonardo Cortellazzi
Primo prigioniero Dionigi D’Ostuni
Secondo prigioniero Antonio Casagrande
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Mestro del Coro Claudio Marino Moretti

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