Venezia, Teatro La Fenice: “Fidelio” inaugura la nuova stagione

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2021-2022
“FIDELIO”
Opera in due atti op. 72. Libretto di Joseph Ferdinand Sonnleithner e Georg Friedrich Treitschke, tratto da Léonore di Jean-Nicolas Bouilly.
Musica di Ludwig van Beethoven
Don Fernando, ministro BONGANI JUSTICE KUBHEKA
Don Pizarro, governatore di una prigione di Stato OLIVER ZWARG
Florestan, un prigioniero IAN KOZIARA
Leonore, sua moglie, sotto il nome di Fidelio TAMARA WILSON
Rocco, capocarceriere TILMANN RÖNNEBECK
Marzelline, sua figlia EKATERINA BAKANOVA
Jaquino, portiere LEONARDO CORTELLAZZI
Primo prigioniero DIONIGI D’OSTUNI
Secondo prigioniero ANTONIO CASAGRANDE
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Joan Anton Rechi
Scene Gabriel Insignares
Costumi Sebastian Ellrich
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 20 novembre 2021
Con un anno di ritardo – era stato programmato per il 2020, nel duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Beethoven, e poi cancellato per l’emergenza sanitaria – il Fidelio è sbarcato in laguna per inaugurare la Stagione, relativa a Lirica e balletto, del Teatro La Fenice. Con la rappresentazione dell’unica opera composta da Beethoven – figlia dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese – il teatro veneziano ha voluto, tra l’altro, lanciare un messaggio di solidarietà verso i bambini e le donne vittime di violenza, come ha dichiarato Ekaterina Bakanova – che interpreta, nello spettacolo, il ruolo di Marzelline –, affermata cantante, nonché Ambasciatrice della Cultura Italiana nel Mondo per il Parlamento Europeo.
Il Fidelio torna sulla scena veneziana dopo un’assenza di più di vent’anni. L’edizione proposta è la terza (1814), ma, in base ad una scelta alquanto discutibile, l’ouverture, che dà inizio allo spettacolo – la Leonore n. 3 –, è quella composta per la seconda versione, attingendo ad una tradizione, risalente ad Hans von Bülow e Gustav Mahler, che comunque prevedeva l’inserimento di questa pagina all’interno dell’opera, fra il primo e il secondo quadro del secondo atto. Sul podio dell’orchestra abbiamo ritrovato – ospite ormai abituale e come sempre graditissimo – il Maestro Myung-Whun Chung, mentre responsabile della regìa è Joan Anton Rechi, nuovamente alla Fenice dopo il recente allestimento del Faust di Gounod.
Il prolifico regista andorrano si è proposto di evidenziare in quest’opera – dove il tema “borghese” dell’amore coniugale si intreccia con quello “rivoluzionario” della lotta per la giustizia e la libertà – gli aspetti intimistici della vicenda. Nella sua messinscena ha inteso coniugare la concretezza all’evocazione simbolica, oltre a creare un colore locale (l’azione si svolge a Siviglia). Ma la caratterizzazione spagnola è francamente molto poco rintracciabile, se non nella mente di Rechi, che, date le sue origini, associa l’idea del carcere alla Valle de los Caídos (la Valle dei Caduti), un complesso monumentale, costruito tra le montagne a nord di Madrid subito dopo la guerra civile, dai prigionieri politici, obbligati a lavorare in una sorta di prigione all’aria aperta. Per altri versi, lo spettacolo, con le sue tinte diffusamente scure, i costumi poco appariscenti, le luci in prevalenza soffuse, rispecchia le intenzioni del regista, rivelando un carattere introspettivo e creando un clima in cui i personaggi, così ben caratterizzati dalla musica, possono svelare il proprio stato d’animo. Interessante, in questo allestimento, è anche l’inserimento di una componente mitologica, simboleggiata dalla presenza sulla scena, nel primo atto, di un’enorme testa marmorea, di ispirazione neoclassica, parte di una statua gigantesca, che i prigionieri – di nuovo un’allusione alla Valle de los Caídos – stanno costruendo. Rechi, infatti, vede in Leonore un novello Orfeo, che strappa dagli Inferi – le segrete del carcere – la persona amata. Se il primo atto si svolge “in superficie”, il secondo è ambientato sottoterra, in un tunnel buio, costituito da una teoria di cerchi, che si illuminano solo nel lieto fine. Ne risulta uno spettacolo tutto sommato godibile.
Sul versante musicale Myung-Whun Chung riesce, da par suo, a farci apprezzare l’estrema concentrazione drammaturgica, ottenuta da Beethoven in un percorso creativo di ben nove anni, per depurare la partitura da ogni elemento ridondante. Nondimeno, la sua lettura non va per nulla a scapito della valorizzazione dei particolari, delle sfumature, dei contrasti, riuscendo altresì ad integrare mirabilmente le voci, all’orchestra, che  in quest’opera ha un ruolo di vero e proprio interlocutore indipendente, che interagisce alla pari con i personaggi.
Energica e toccante è apparsa Tamara Wilson, nel ruolo di Fidelio/Leonore, che dopo la sua performance nel magnifico quartetto “Mir ist so wunderbar” (Mi sento sì strana), si è imposta egregiamente, quanto a bellezza del timbro e intelligenza interpretativa, nella lunga aria “Abscheulicher!” (Scellerato!), svelando con intensità il proprio stato d’animo, tra sdegno, speranza ed estasi d’amore coniugale. Spiace dover constatare, invece, che Ian Koziara nei panni di Florestan non è sempre apparso all’altezza delle difficoltà legate a questo ruolo. In particolare, in “Gott! Welh’ Dunkel hier!” (Dio! Qual buio qui!), un’aria tra le più impegnative per i tenori, si è notata qualche secchezza nell’emissione, che ha parzialmente compromesso la sua prestazione in questa pagina fondamentale, dove l’amore per la verità, causa degli aspri tormenti del prigioniero, si coniuga al vagheggiamento di Leonore, assimilata ad un angelo liberatore. Tratti satanici ha rivelato il convincente Don Pizarro di Oliver Zwarg, che con voce dal bel timbro scuro e giusto accento si è segnalato nelle violente imprecazioni contenute in “Ha! Welch ein Augenblick!”  (Ah! Quale istante!) e poi nella truce “Er sterbe!” (Muoia!). Positiva è stata anche la prova di Ekaterina Bakanova, quale Marzelline, che nell’aria con cui esordisce, “O wär’ ich schon mit dir vereint” (Oh s’io fossi già a te unita), abbellita dagli strumenti a fiato, ha cantato con una vocalità chiara ed espressiva il suo amore per Fidelio, e quella di Leonardo Cortellazzi nei panni del suo sfortunato spasimante, Jaquino. Variegato nel carattere, come dev’essere, è risultato il Rocco di Tilmann Rönnebeck, che con voce ben timbrata ha reso efficacemente il proprio passaggio dai toni faceti – tipici di ceti personagi del Singspiel – a quelli seri. Adeguata professionalità ha dimostrato Bongani Justice Kubheka (Don Fernando), al pari di  Dionigi D’ostuni e Antonio Casagrande (Primo e Secondo prigioniero). Il coro, come sempre corretto e ben preparato, si è fatto apprezzare, nonostante le mascherine, in particolare nel celebre “O welche Lust” (Oh qual piacere), dove ha espresso la speranza dei prigionieri con la soavità d’accenti voluta da Beethoven. Successo pieno per tutti con qualche acclamazione per Tamara Wilson e il direttore.