Recensioni - Opera

A Modena il primo Verdi con Giovanna d’Arco

Messa in scena importata dalla Francia, piacevole ma sostanzialmente statica

Il Teatro comunale Pavarotti di Modena conclude la breve stagione lirica con la messa in scena di Giovanna d’Arco, titolo giovanile di Giuseppe Verdi, composta dal maestro a 32 anni e presentata alla Scala di Milano in prima assoluta il 15 gennaio del 1845.

Lo spettacolo è un allestimento dell’Opéra-Théatre di Metz in Francia, dove ha debuttato il 2 ottobre dello scorso anno. Scelta probabilmente non casuale da parte del teatro francese, trovandosi Metz a un centinaio di chilometri da Domremy, paese natale della Pulzella d’Orléans. Paul-Emile Fourny ne cura la regia, coadiuvato dalle scene e luci di Patrick Méeus, dai costumi accurati e suggestivi di Giovanna Fiorentini e dalle installazioni video di Virgile Koering.

La messa in scena si avvale infatti prevalentemente di ben calibrate videoproiezioni che coinvolgono l’intera scena, costituita da una grande pedana inclinata e da un telo sullo sfondo. Ogni ambiente viene caratterizzato dalle videoproiezioni e da luci accurate e ben organizzate. La coreografia che accompagna l’overture, a cura di Aurélie Barre, lascia presagire un allestimento interessante, con una lettura psicologica del complesso e sfuggente personaggio di Giovanna. I movimenti coreutici rappresentano infatti gli incubi della fanciulla e le sue famose voci angeliche e demoniache in un fiorire di spine e aghi proiettati sulla scena. Tuttavia il prosieguo delude in parte le aspettative.

Le proiezioni scenografiche, pur sempre accurate e professionali, virano in scene sostanzialmente didascaliche e descrittive, per cui vediamo castelli, boschi, la cattedrale di Reims; mentre nulla più si percepisce dell’iniziale spunto drammaturgico. Solo nel finale, quando Giovanna è prigioniera degli inglesi, torna un carcere che è più mentale che reale, costellato nuovamente da una gabbia di rovi che è proiezione dell’animo vaneggiante di Giovanna.

Certo Giovanna d’Arco è un prodotto degli “anni di galera” di Verdi e questo si nota in particolare nella breve, confusa e fuorviante drammaturgia, in parte ripresa dalla “Jungfrau von Orléans” di Schiller, ma ampiamente rimaneggiata dal librettista Temistocle Solera con esiti disomogenei. Proprio per questo sarebbe stato opportuno agire maggiormente sulla drammaturgia e sui risvolti psicologici dei personaggi, senza focalizzarsi eccessivamente su una storia e un libretto che accavalla astrusità e incongruenze.

Così abbiamo assistito ad una messa in scena tutto sommato piacevole, ben curata, ma sostanzialmente didascalica, quasi da oratorio sacro nell’insistente immobilità dei cori, nell’olografia ripetuta e spesso noiosa di scene che sono quadri patinati a sfondo simil medievale e nulla più. Gli stessi cantanti sono abbandonati semplicemente a proscenio a snocciolare arie e cabalette. Il coro è sempre disposto in scena in modo ordinato e non fa minimamente cenno ad essere parte della vicenda drammatica. Le voci angeliche e diaboliche che ripetutamente perseguitano Giovanna sono recluse nel retropalco, lasciando l’interprete a sbracciarsi in una scena vuota.

Tutto il terzo atto è un quadro statico in cui l’unico movimento è dato dalle immagini che propongono esterno e interno della cattedrale di Reims, nella cui navata corre l’immagine proiettata di Giovanna mentre la protagonista è immobile in scena. Anche se alcune idee sono azzeccate, come l’immagine rallentata di donne dolenti, quasi prefiche in veste bianca, all’annuncio della morte di Giovanna, crediamo che oggi sia legittimo aspettarsi una maggiore attenzione drammaturgica e soprattutto una linea interpretativa non solamente estetica nella messa in scena del teatro d’opera.

Dal punto di vista musicale Roberto Rizzi Brignoli tiene saldamente in pugno l’Orchestra dell’Emilia Romagna Arturo Toscanini, proponendoci una lettura classica della partitura. Discreta la compagnia di canto, in cui spicca il baritono fiorentino Devid Cecconi (Giacomo, padre di Giovanna) che piega la sua voce chiara e ben educata ad una linea di canto sempre attenta e musicale. La coreana Vittoria Yeo si destreggia bene con voce salda ed espressiva nell’ardua parte di Giovanna, certo risulta costretta da una regia che fornisce pochi spunti ad un personaggio così sfaccettato. Importante voce drammatica dal timbro accattivante quella del tenore tunisino naturalizzato francese Amadi Lagha, che, pur con qualche incertezza e qualche sbiancatura di troppo, ha sostenuto il ruolo del Re Carlo VII in modo convincente ed equilibrato. Completavano degnamente il cast Alessandro Lanzi e Ramaz Chikviladze.

Calorosi applausi nel finale.

R. Malesci (19 Novembre 2021)