Piacenza, Teatro Municipale: “Aroldo”

Piacenza, Teatro Municipale – Stagione d’Opera 2021-22
AROLDO
Melodramma in quattro atti di Francesco Maria Piave, tratto da “Le Pasteur ou L’Évangile et le Foyer” di Émile Souvestre e Eugène Bourgeois, da “Harold: last of the Saxon Kings” di Edward George Bulwer-Lytton, e da “Il contestabile di Chester” e “La donna del lago” di Walter Scott.
Musica di Giuseppe Verdi
Aroldo LUCIANO GANCI
Mina ROBERTA MANTEGNA
Egberto VLADIMIR STOYANOV
Briano ADRIANO GRAMIGNI
Godvino RICCARDO RADOS
Enrico GIOVANNI DRAGANO
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Manlio Benzi
Maestro del Coro Corrado Casati
Regia e drammaturgia Emilio Sala, Edoardo Sanchi
Scene Giulia Bruschi
Costumi Raffaella Giraldi, Elisa Serpilli
Luci Nevio Cavina
Nuovo allestimento – Coproduzione Teatro Galli di Rimini, Teatro Alighieri di Ravenna, Teatro Comunale di Modena, Teatro Municipale di Piacenza
Piacenza, 23 gennaio 2022
Un cast di grande talento corona la decisione del Teatro Municipale di Piacenza di riportare sulle scene l’“Aroldo” di Giuseppe Verdi, noto anche con la triste espressione di “Stiffelio rimpastato“ che gli diede il Basevi, primo grande studioso verdiano. In effetti la storia, oltre che la musica, dell’“Aroldo” sono frutto di un rifacimento causato da problemi censori: “Stiffelio“ è l’unica opera verdiana ambientata nella sua contemporaneità, e quindi considerata “scandalosa“ per il soggetto adulterino che tratta; “Aroldo“, invece, ispirato a un romanzo di Bulwer-Lytton, traspone la vicenda in un generico Duecento inglese dal sapore scottiano e, da una parte, preserva l’integrità dell’opera dalla falce della censura, dall’altra appiattisce e inzucchera la vicenda su un’estetica trita e ritrita, tipicamente romantica: a rialzare la situazione, Verdi pone un quarto atto in effetti di grande eleganza, che avrebbe forse fatto bene anche all’originale “Stiffelio”. Per essere chiari, non è necessario che tutto Verdi venga tirato fuori dal cassetto, come per ogni altro compositore: la scelta di rispolverare l’“Aroldo”, avrebbe pure potuto non essere tanto apprezzabile, se non fosse stato selezionato il validissimo cast di cui sopra. La parte del protagonista è retta con grande naturalezza, sicurezza tecnica, omogeneità di registri, da Luciano Ganci, cui forse soltanto si può appuntare un fraseggio poco variegato, ma tutto sommato funzionale al personaggio; l’adultera Mina è interpretata da una Roberta Mantegna in stato di grazia: il soprano palermitano fa sfoggio di una autentica voce di soprano lirico, pura, ricca di armonici, che sapientemente mescola eterea dolcezza e decisa espressività; la Mantegna affronta il ruolo con attenzione e cura della frase, unita a una efficace resa scenica. Egberto è invece affidato alla grande maestria e consapevolezza di Vladimir Stoyanov: la scena d’apertura del terzo atto, con il suo recitativo, l’arioso e la cabaletta, sono un vero pezzo di bravura per baritono, e Stoyanov l’affronta con trascinante passionalità, fraseggio intenso e scintillante smalto vocale – il pubblico gli riserva giustamente  applausi pieni e convinti. Di valore l’apporto di Adriano Gramigni  (Briano), che sfoggia un  colore vocale brunito e morbido, sebbene anch’egli un po’ carente nella resa espressiva – il ruolo, fortemente stereotipato anche da un punto di vista vocale, certo non aiuta. Buone le prove anche dei due personaggi giovani, Godvino ed Enrico, che sono ben tratteggiati, sia nel canto che teatralmente, da Riccardo Rados e Giovanni Dragano. Con un simile cast, è più che naturale che siano ben valorizzati anche i concertati, come quello del finale del primo atto, soprattutto quando interviene anche il Coro del Teatro Municipale, una presenza solida e di grande omogeneità – e per questo sicuramente un plauso va anche al maestro Corrado Casati. Buona la direzione del maestro Manlio Benzi, attento ad evitare derive facilmente cadenzate, ma forse un po’ troppo prudente: il suo “Aroldo“ ha molta personalità, ma una patina malinconica che non siamo sicuri fosse davvero nelle intenzioni verdiane. Ad esacerbare questa interpretazione concorre tutto l’apparato creativo di questa produzione che, sia chiaro, propone una interessantissima commistione tra opera, materiale documentario audio e video, ricostruzione storica e critica valoriale. Insomma, è indubbio che questa produzione abbia qualcosa da dire, ma anche molto da dare dal punto di vista estetico e drammaturgico. Tuttavia, è proprio da questa sua stessa natura che deriva l’unica, fondante, critica che le si può muovere: la scelta, infatti, di ambientare quest’opera precisamente in Romagna e precisamente durante il Ventennio fascista, a lungo andare prende il sopravvento sul contenuto dell’opera stessa; per capirci meglio: siamo più interessati a vedere le proiezioni di cimeli, foto, e addirittura video propagandistici dell’epoca, piuttosto che a concentrarci sulla vicenda – che sì, abbiamo definito debole, ma tale è e rimane. Tutto l’apparato estetico razionalista, le continue scritte propagandistiche che dominano la scena, persino le scelte cromatiche da film dei telefoni bianchi (suggellata dalle gelide, elegantissime luci di Nevio Cavina) non valorizzano l’opera verdiana, ma a tratti si sostituiscono ad essa – e la prova è che più di uno spettatore viene colto a leggere la trama durante lo spettacolo, o durante l’intervallo si interroga su quanto sia appena avvenuto. Senza dunque sminuire l’affascinante opera di Giulia Bruschi per le scene, Raffaella Giraldi ed Elisa Serpilli per i costumi, ed Emilio Sala ed Edoardo Sanchi per la regia nel suo complesso, forse sarebbe stato il caso di non calcare così tanto arbitrariamente la mano sul desiderio di condanna politica, quando non di semplice ricostruzione storica, perché non sarà facile rivedere un altro “Aroldo“ su queste scene tanto presto, e la sensazione chiarissima è quella che per il pubblico piacentino “Aroldo“ sarà ricordata come l’opera “sui fascisti“ e non quella concepita da Verdi e Piave. Foto Cavalli