Venezia: la disperazione di Grimes

Nel Borgo marinaro in cui vive, sulle coste inospitali del Suffolk, il pescatore Peter Grimes è un emarginato destinato alla sconfitta. Uomo rozzo, solitario, di cupa introversione, forse violento, è il “bersaglio perfetto” di una piccola società ipocrita e superficiale, crudele e arida – in realtà rozza quanto lui – che non gli perdona la sua diversità e ancor meno la sua aspirazione a migliorare la propria condizione. La morte di un mozzo sulla sua barca da pesca durante una tempesta, ancorché considerata accidentale al termine di una sorta di processo popolare, per Grimes è l’inizio della fine. Inesorabilmente egli diventa il “mostro” da evitare e da punire, anche senza prove, fino a quando un incidente non causa la morte del nuovo mozzo che era riuscito a vedersi affidato, grazie all’unica persona che stava dalla sua parte e con la quale pensava forse di costruire un’esistenza “normale”, la maestra di scuola del paese. A quel punto non occorrono né processo né condanna: il destino di Peter Grimes è solo quello di sparire dal Borgo, letteralmente. Porta la sua barca al largo e si affonda con essa, nell’indifferenza di chi lo aveva perseguitato fino a quel momento.

Portata in scena a Londra all’alba della pace dopo la Seconda Guerra mondiale, nel mese di giugno del 1945, Peter Grimes amplifica, nell’eccellente libretto di Montagu Slater, la vicenda di un personaggio collaterale di un poemetto del poeta inglese George Crabbe, The Borough, pubblicato all’inizio del XIX secolo. L’opera fu la prima grande affermazione dell’allora trentaduenne Benjamin Britten come autore di teatro per musica e rimane oggi uno dei titoli fondamentali del XX secolo. La sua modernità era destinata a rimanere in posizione defilata rispetto alla vicenda della cosiddetta Seconda Avanguardia, che di lì a poco si sarebbe affermata, ma ci appare oggi, tramontati definitivamente i radicalismi della Neue Musik, un momento fondamentale della musica del Novecento – non diversamente dalla serie di capolavori che in seguito il compositore inglese avrebbe firmato, da Billy Bud (1951) a The Turn of the Screw (Il giro di vite, 1954) per arrivare a Death in Venice (1973).

Carica di significati metaforici e universali – non a caso tutt’ora di stringente attualità – ma anche soggettivi e forse in qualche misura autobiografici (il senso di emarginazione del musicista, ad esempio, in un’epoca nella quale l’omosessualità non era ammessa e anzi era perseguitata), la drammaturgia di Peter Grimes viene esaltata dalle scelte stilistiche di Britten, improntate a un eclettismo colto e sofisticato. La sua scrittura appare vivamente comunicativa – in una gamma espressiva straordinariamente ampia – come effetto di un lavoro raffinato e complesso, che unisce la tradizione classica e financo l’eredità barocca con gli stimoli della musica popolare antica e attuale, in un gioco di rifrazione e sovrapposizione che in alcuni momenti delinea una polifonia di maniere assolutamente sbalorditiva.

Al centro sta la scrittura strumentale, non solo nella serie dei celebri Interludi orchestrali che contrappuntano ed esaltano lo sviluppo della vicenda, diventando essi stessi elemento drammaturgico centrale, ma nell’accompagnamento di una vocalità rigogliosa, ricchissima di sfumature. In essa, lo stile melodrammatico all’italiana si evolve e conosce una metamorfosi nella quale non sono ininfluenti l’esperienza del teatro musicale tedesco dei primi decenni del Novecento.

Il risultato è che in quest’opera musica e voce si fanno teatro con una naturalezza assoluta, sfuggendo la prima al rischio del descrittivismo stucchevole, la seconda alle tagliole di forme che – se adottate rigidamente – avrebbero minato la forza crescente del dramma. Del resto, analogamente, nella partitura l’elemento psicologico interiore, interagisce e si sviluppa insieme alla cornice per così dire “naturalistica”, costituita dalla presenza incombente, temibile e non di rado ossessiva – ma comunque decisiva – del mare.

Nonostante Benjamin Britten fosse stato negli Anni Cinquanta molto legato a Venezia e al suo festival di musica contemporanea, Peter Grimes non era ancora mai stato rappresentato alla Fenice. Quello di venerdì è stato quindi un assai felice debutto assoluto, probabilmente il momento più importante di una stagione non sempre di eguale livello. Affidato all’esperienza di Paul Curran, lo spettacolo è risultato convincente per la sua stilizzata ma coinvolgente essenzialità. La scelta del regista scozzese è stata quella di delineare un’ambientazione claustrofobica, con incombenti, a volte inquietanti pareti di legno facili da girare e riposizionare al cambio delle scene, e con pochi elementi di decorazione povera. La frequente e psicologicamente devastante presenza del popolo del Borgo è stata spesso elemento decisivo, nel contrasto con la solitudine di Grimes, isolato anche in mezzo alla folla: una massa scomposta, spesso urlante, in perenne agitazione, raccolta in gran numero in spazi stretti (certi rigori anti-pandemici sono ormai archiviati, ma la cronaca segnala che comunque il coro ha cantato con mascherina). Tutti erano vestiti (costumi di Gary McCann, autore anche delle scene) con abiti che rimandavano agli anni Quaranta-Cinquanta, efficaci anche nel delineare qualche differenza sociale: l’unico ben delineato elemento di attualizzazione (l’epoca della composizione) in uno spettacolo di grande equilibrio e di evidente accuratezza.

Il mare, le onde e il vento, così presenti nella partitura di Britten, sono stati risolti nel gioco delle luci (Fabio Barettin), con parche ma efficaci proiezioni di carattere quasi onirico, che hanno delineato la sensazione di paesaggi marini, più che i paesaggi in senso pittorico, non diversamente da quanto fa la musica del compositore inglese.

Dirigeva Jurai Valčuha, che conosce bene l’opera (era sul podio anche al Comunale di Bologna, nel 2017) e ha saputo delineare con grande efficacia la complessità strumentale della partitura, assecondato da una prova maiuscola dell’orchestra della Fenice. Nella sapiente lettura di Valčuha ogni dettaglio brilla nella sua evidenza autonoma e si inserisce naturalmente nel discorso generale, grazie alla sorvegliata ricchezza del fraseggio e alla ben studiata gamma dinamica. Interpretazione di forte sottolineatura psicologica, la sua, eloquente nel mettere in evidenza la complessità espressiva di questa partitura magistrale, la sua multiforme ricchezza timbrica, incisa come al bulino dall’autore.

Sulla stessa lunghezza d’onda la folta compagnia di canto. Esemplare il Grimes di Andrew Staples nel delineare l’incubo della solitudine e del rifiuto in cui è costretto a vivere con una linea di canto duttile, che trascorre da un trasognato lirismo a una disperazione di stampo quasi espressionista, di tagliente impatto drammatico. Molto bene anche Emma Bell nel ruolo della maestrina Ellen Orford, coraggiosa ma disarmata di fronte alla disperazione dell’uomo che vorrebbe salvare. E positivo Mark S. Doss, che ha dato accenti sinceri e severi al personaggio del capitano Balstrode.

Dalla moltitudine degli spietati popolani del Borgo sono emerse la proprietaria del pub, Sara Fulgoni, inesorabilmente cinica, con le sue “nipotine” di bella presenza e abiti succinti, principale attrazione del locale, Patricia Westley e Jessica Cale. Bene anche Cameron Becker nella parte di Bob Boles, pescatore e fanatico metodista troppo propenso all’alcol. E molto bene Rosalind Plowright, che nel dare voce e scena alla ricca vedova Sedley, troppo dedita al laudano e ossessionata dalla figura di Grimes, è parsa l’immagine stessa di un’ipocrisia attuale nel 1945 e tristemente ben presente anche oggi nella nostra società.

Degno di lode l’impegno del coro della Fenice istruito da Alfonso Caiani, che si è mosso assai bene nel denso spettacolo di Curran e ha cantato al meglio, considerando la mascherina da tutti indossata.

Teatro pressoché al completo alla prima e accoglienze entusiastiche da parte del pubblico, che ha più volte richiamato a proscenio con grandi applausi tutti i protagonisti della serata.

Cesare Galla
(24 giugno 2022)

La locandina

Direttore Juraj Valčuha
Regia Paul Curran
Scene e costumi Gary McCann
Light designer Fabio Barettin
Personaggi e interpreti:
Peter Grimes Andrew Staples
Ellen Orford Emma Bell
Captain Balstrode Mark S. Doss
Auntie Sara Fulgoni
First Niece Patricia Westley
Second Niece Jessica Cale
Robert Boles Cameron Becker
Swallow Sion Goronwy
Mrs. Sedley Rosalind Plowright
rev. Horace Adams Eamon Mulhall
Ned Keene Alex Otterburn
Hobson Laurence Meikle
Boy (John) Pietro Moretti
Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Maestro del coro Alfonso Caiani

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